Bellina Pierantonio - La fatica di esser prete
ildelaura
Nella storia letteraria recente del Friuli, intendo dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi, alcuni sacerdoti si sono distinti per profondità di pensiero, studio e amore per la lingua e le tradizioni locali, impegno serio soprattutto in campo culturale: spiriti liberi e anticonformisti, spesso in aperto contrasto con le gerarchie e i centri di potere politico e religioso, essi si sono adoperati in maniera non dissimile l’uno dall’altro nella salvaguardia di un’identità linguistica e storica forte, tuttavia soffocata in ogni modo e sotto molti aspetti. I loro nomi non dicono nulla al resto d’Italia, ma nella nostra terra vengono ricordati con ammirazione e riconoscenza. Giuseppe Marchetti, insigne linguista e studioso d’arte, storico e strenuo difensore delle istanze autonomistiche locali; Pietro Londero, cultore di arte e storia del Friuli; Francesco Placereani, anch’egli uomo di cultura che iniziò coraggiosamente la traduzione delle Sacre Scritture in lingua friulana; e infine Pierantonio Bellina, scomparso alcuni mesi fa, prolifico scrittore in lingua friulana (su temi pastorali e storici), ricordato soprattutto per aver portato a termine il lavoro di traduzione della Bibbia e del Messale Romano.
Pierantonio Bellina prima di essere scrittore e traduttore è però sacerdote e uomo di grande interiorità, di grande spessore e di grandi contrasti.
Il maggiore lo ha avuto con la Chiesa, in occasione di uno scritto sull’esperienza seminariale (il titolo traducibile come “La fabbrica dei preti” dovrebbe dare un’idea dei contenuti polemici) che venne pubblicato, distribuito e immediatamente ritirato dalle librerie: per nulla timoroso di esprimere il proprio punto di vista anche quando risulti scomodo e persino urtante per le gerarchie ecclesiastiche, Bellina viene intervistato dal giornalista Marino Plazzotta e l’intervista diviene libro (l’ultimo di don Bellina, pubblicato a pochi giorni dalla sua morte) e summa del pensiero espresso per anni nei numerosissimi scritti, negli editoriali del mensile “Patrie dal Friûl” e sulle pagine del settimanale “La vita cattolica”. Un pensiero profondamente umano e quasi sempre critico nei confronti di chi propone soluzioni facili o preconfezionate ai grandi problemi della vita, soprattutto nei confronti di una Chiesa che ha tradito molte aspettative sotto il profilo pastorale e formativo.
Un pensiero che affonda le radici nella umile terra che gli ha dato i natali, nella famiglia semplice e per nulla bigotta, nella vocazione maturata all’ombra delle navate del Duomo di Venzone che lo porta in seminario a soli 11 anni nel 1952, dal quale uscirà sacerdote tredici anni dopo. E poi un pensiero fatto crescere nell’esperienza quotidiana presso le parrocchie dei paesi di una Carnia abbandonata e in quelle della Bassa Friulana dove il suo “mandato terreno” termina nell’aprile di quest’anno.
Plazzotta ripercorre con domande intelligenti e incalzanti le tappe della vita umana e sacerdotale di don Bellina, introduce i suoi numerosi libri e con delicatezza ne interroga l’anima in una sorta di confessione al contrario, un dialogo tra maestro e discepolo che tuttavia non ha nulla di dotto e restituisce il sapore di una chiacchierata tra amici . L’ordine non cronologico delle interviste è atto a ricostruire le sfaccettature umane e culturali di un uomo che accetta il proprio limite, profondamente credente e proprio per questo così polemico nei confronti di una Chiesa sempre più lontana dall’uomo e dalle sue necessità.
“La Chiesa non deve rompere continuamente le scatole alla gente e predicare in maniera ossessiva e maniacale sul contraccettivo, sugli omosessuali, sulle coppie di fatto, sui divorziati, sulle cellule staminali e su questo e su quello. Basta! Se non è il papa a parlare sono pronti gli altri che hanno ogni giorno una novità da proibire. Ma lascia che la gente faccia le sue scelte, adoperi la sua testa e la sua coscienza, impari a scegliere con responsabilità e a pagare quando sceglie male! Solo così si cresce.” (p. 51)
E poco oltre:
Sarebbe ora che la Chiesa imparasse farsi domande… deve avere la sapienza e l’umiltà di imparare a farsi le grandi domande (p.71)
L’esperienza quasi devastante del seminario è raccontata con amarezza e senso di impotenza per quello che è stato fatto, che forse viene ancora fatto.
“In seminario, salvo rarissime e miracolose eccezioni, hanno fatto carriera soprattutto i bugiardi, i falsi, quelli che sapevano raccontarla, i meno intelligenti, quelli che stavano sempre attenti da che parte tirava il vento, le persone più grigie. I lacché, appunto. Bambini inermi (entravano in seminario a undici anni!), poi adolescenti che diventavano adulti, costretti da regole tremende e coltivati in una serra triste ed opprimente, senza affetto, senza comuni dolcezze, senza una serenità normale” (p. 63)
La riflessione diventa tragica, quando don Bellina pensa alla responsabilità formativa nei confronti dei giovani seminaristi:
“Sono convinto che tanta cattiveria, villania, rabbia, violenza, che troppi preti hanno trasferito sulla gente, soprattutto sui bambini, al limite della follia e della perversione, dipenda da quel sistema barbaro di bloccare l’affettività e di reprimere violentemente le manifestazioni più naturali della sessualità. Chi potrà perdonare tutti questi peccati diabolici che il seminario e le istituzioni similari hanno commesso sistematicamente nei confronti di giovani onesti?” (p.92)
Il capitolo dedicato al seminario occupa buona parte dell’intera intervista: è un’urgenza quella di don Bellina di spiegare perché il “mestiere” di prete sia così difficile, ingiustamente difficile. Terrorizzati dall’idea di un Dio mostruoso pronto alla vendetta, formati alla più rigida obbedienza, tenuti lontani dagli affetti, umiliati nell’intelletto e colpevolizzati fin nel profondo riguardo alla sessualità, coloro che entravano in seminario bambini ne uscivano spesso come persone “a metà”, private di una dimensione fondamentale, quella appunto umana, mentre la vocazione sacerdotale chiama proprio a evangelizzare l’uomo nel suo complesso mondo di corpo, spirito e anima.
E tuttavia Pierantonio Bellina è un sacerdote, fedele alla propria chiamata non solo nella vita umile e nascosta nelle parrocchie carniche, dove i contadini e la gente semplice gli hanno insegnato più di tutti i libri e di tutti i preti incontrati durante gli studi, ma anche nelle gravi difficoltà di salute che accompagnarono tutti i suoi anni. Bellissime le pagine riguardanti il dolore, cui don Bellina si accosta con il rispetto di chi ha camminato per certe strade piene di sassi.
Si possono evitare tante cose, ma non il dolore e neppure la morte.
“Signore, accetto la morte, anche se mi fa paura, come fa paura a tutte le persone normali. Non farmi morire prima dell’ora. Soprattutto non farmi vivere ed agonizzare aspettando la morte”. In poche parole chiedo al Signore che la morte non si prenda il mio corpo dopo aver assassinato la mia anima. (p. 98)
E il suo desiderio viene esaudito, perché muore accasciandosi davanti al sagrato della chiesa di Basagliapenta di Basiliano, dove risiedeva negli ultimi anni.
Impegnato a far conoscere alla sua gente nella lingua che le è propria la storia e le tradizioni, e con esse e attraverso esse a conservare la memoria di sé, nell’arco di almeno quindici anni don Bellina traduce la Bibbia in lingua friulana. Un lavoro enorme (“devi conoscere bene il testo di partenza e il testo di arrivo, si tratta di fare una mediazione fra sue linguaggi senza adattamenti di sorta: nello stesso tempo devi tradurre in modo leggibile e comprensibile” p. 113), che incontra pochissimi consensi a livello ecclesiale e molti di più tra la gente, ma che, forse a causa della personalità poco “allineata” dell’Autore, non gli tributa nessuna onorificenza: saprà che una copia è stata donata al Santo Padre da una fotografia su un giornale.
Sacerdote che è riuscito a non perdere mai di vista l’uomo (a proposito dei gay, dei conviventi e di tutti quelli che la Chiesa “tiene fuori” dice “se anche mio padre e mia madre mi mandano via, dove trovo rifugio, serenità, salvezza? La Chiesa dovrebbe chiedere prima di tutto, non sei sposato in Chiesa o no, non se sei gay o no, ma cosa posso fare, come posso aiutarti? Avvicinati, entra, bevi un sorso d’acqua, siediti qui…cercherò di condividere la tua sofferenza anche se non concordo con le tue idee e scelte” p. 146), egli non rinuncia alla fede in Dio e neppure a quella in una Chiesa che gli è comunque madre, ma che dovrebbe davvero ravvedersi perché “non è facile parlare della propria madre e legare l’affetto con la lucidità, il cuore con gli occhi”. (p. 154).
E’ il cruccio di tutta la sua esistenza di uomo e di sacerdote: dare Dio alla gente, restituire la dimensione del sacro svestendola degli orpelli e di troppe intermediazioni ecclesiastiche incapaci di dare una risposta alle domande cruciali dell’esistenza.
Per questo spiega nei suoi molti scritti, ma in maniera vicina alla gente che li legge, le grandi tematiche cristiane: lontano dalla teologia – e tuttavia suo buon conoscitore – spiega in modo personale quello che lui stesso ha bisogno di capire. “Se capisco qualche cosa, il mistero ha senso; se resta assolutamente imperscrutabile, non ha senso … a me non interessa andare a rompere il giocattolo per sapere come è fatto, come sono soliti fare i bambini; a me interessa chiedermi: questo mistero, questa verità insondabile che mi viene rivelata, mi serve e in che modo? Cosa posso portare nella mia vita limitata, del mistero illimitato di Dio?” (p. 126).
Completano il libro-intervista di Plazzotta tre appendici contenenti altrettante pagine tradotte in italiano e provenienti dal libro (quattro edizioni dal 1994 al 2003) "Cirint lis olmis di Diu" e alcune pagine di aforismi, piccole pietre preziose e taglienti sulla condizione dell’uomo, del sacerdote, della Chiesa.
Mi rendo conto della pericolosità di presentare in pochi stralci il pensiero complesso e articolato che è stato alla base dell’impegno di un’intera vita.
E’ importante puntualizzare l’aderenza e la coerenza di quest’uomo alla propria chiamata, la risposta continua e impegnata alla propria vocazione e al compito educativo verso la sua gente, la distinzione ben netta fra Chiesa-istituzione e Chiesa-comunità: la prima contrastata e criticata anche aspramente, la seconda amata e servita.
In un mondo non facile per un uomo, ma meno ancora per un sacerdote, di Pierantonio Bellina restano oggi le parole profonde, e un esempio luminoso di lealtà alla sua gente e alla sua terra, alla sua fede e a sé stesso. A lui credo si adattino davvero le parole dell’Apostolo Paolo:
“Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la Fede”
(2 Timoteo, 4,7)
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Pierantonio Bellina (1941-2007), sacerdote e autore in lingua friulana di testi di argomento culturale, storico e pastorale, ha scritto numerosi editoriali per il mensile La Patrie dal Friûl e ha tenuto una rubrica sul settimanale della diocesi udinese La Vita cattolica, i cui interventi sono stati raccolti nel volume “Cirint lis olmis di Diu” (Cercando le impronte di Dio). Ha animato con fervore il gruppo religioso e culturale Glesie Furlane attraverso il quale sono state pubblicate le traduzioni della Bibbia e del Messale Romano. L’opera per cui è maggiormente noto rimane la traduzione della Bibbia in lingua friulana, ma è stato anche traduttore delle fiabe di Fedro, Esopo, La Fontaine e del Pinocchio di Collodi.
Pierantonio Bellina, La fatica di essere prete (a colloquio con Marino Plazzotta).
Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 2007
Note biografiche e bibliografia alle voci di Wikipedia in italiano e friulano.
La bibliografia delle opere è curata anche da Glesie Furlane - in medrelingua - qui.
Altri approfondimenti su vita e opere, in italiano, sul Messaggero Veneto
In memoria di G.M.
Ilde Menis, agosto 2007
fonte: http://www.lankelot.eu/index.php/2007/08/13/bellina-pierantonio-la-fatica-di-esser-prete/
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Nella storia letteraria recente del Friuli, intendo dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi, alcuni sacerdoti si sono distinti per profondità di pensiero, studio e amore per la lingua e le tradizioni locali, impegno serio soprattutto in campo culturale: spiriti liberi e anticonformisti, spesso in aperto contrasto con le gerarchie e i centri di potere politico e religioso, essi si sono adoperati in maniera non dissimile l’uno dall’altro nella salvaguardia di un’identità linguistica e storica forte, tuttavia soffocata in ogni modo e sotto molti aspetti. I loro nomi non dicono nulla al resto d’Italia, ma nella nostra terra vengono ricordati con ammirazione e riconoscenza. Giuseppe Marchetti, insigne linguista e studioso d’arte, storico e strenuo difensore delle istanze autonomistiche locali; Pietro Londero, cultore di arte e storia del Friuli; Francesco Placereani, anch’egli uomo di cultura che iniziò coraggiosamente la traduzione delle Sacre Scritture in lingua friulana; e infine Pierantonio Bellina, scomparso alcuni mesi fa, prolifico scrittore in lingua friulana (su temi pastorali e storici), ricordato soprattutto per aver portato a termine il lavoro di traduzione della Bibbia e del Messale Romano.
Pierantonio Bellina prima di essere scrittore e traduttore è però sacerdote e uomo di grande interiorità, di grande spessore e di grandi contrasti.
Il maggiore lo ha avuto con la Chiesa, in occasione di uno scritto sull’esperienza seminariale (il titolo traducibile come “La fabbrica dei preti” dovrebbe dare un’idea dei contenuti polemici) che venne pubblicato, distribuito e immediatamente ritirato dalle librerie: per nulla timoroso di esprimere il proprio punto di vista anche quando risulti scomodo e persino urtante per le gerarchie ecclesiastiche, Bellina viene intervistato dal giornalista Marino Plazzotta e l’intervista diviene libro (l’ultimo di don Bellina, pubblicato a pochi giorni dalla sua morte) e summa del pensiero espresso per anni nei numerosissimi scritti, negli editoriali del mensile “Patrie dal Friûl” e sulle pagine del settimanale “La vita cattolica”. Un pensiero profondamente umano e quasi sempre critico nei confronti di chi propone soluzioni facili o preconfezionate ai grandi problemi della vita, soprattutto nei confronti di una Chiesa che ha tradito molte aspettative sotto il profilo pastorale e formativo.
Un pensiero che affonda le radici nella umile terra che gli ha dato i natali, nella famiglia semplice e per nulla bigotta, nella vocazione maturata all’ombra delle navate del Duomo di Venzone che lo porta in seminario a soli 11 anni nel 1952, dal quale uscirà sacerdote tredici anni dopo. E poi un pensiero fatto crescere nell’esperienza quotidiana presso le parrocchie dei paesi di una Carnia abbandonata e in quelle della Bassa Friulana dove il suo “mandato terreno” termina nell’aprile di quest’anno.
Plazzotta ripercorre con domande intelligenti e incalzanti le tappe della vita umana e sacerdotale di don Bellina, introduce i suoi numerosi libri e con delicatezza ne interroga l’anima in una sorta di confessione al contrario, un dialogo tra maestro e discepolo che tuttavia non ha nulla di dotto e restituisce il sapore di una chiacchierata tra amici . L’ordine non cronologico delle interviste è atto a ricostruire le sfaccettature umane e culturali di un uomo che accetta il proprio limite, profondamente credente e proprio per questo così polemico nei confronti di una Chiesa sempre più lontana dall’uomo e dalle sue necessità.
“La Chiesa non deve rompere continuamente le scatole alla gente e predicare in maniera ossessiva e maniacale sul contraccettivo, sugli omosessuali, sulle coppie di fatto, sui divorziati, sulle cellule staminali e su questo e su quello. Basta! Se non è il papa a parlare sono pronti gli altri che hanno ogni giorno una novità da proibire. Ma lascia che la gente faccia le sue scelte, adoperi la sua testa e la sua coscienza, impari a scegliere con responsabilità e a pagare quando sceglie male! Solo così si cresce.” (p. 51)
E poco oltre:
Sarebbe ora che la Chiesa imparasse farsi domande… deve avere la sapienza e l’umiltà di imparare a farsi le grandi domande (p.71)
L’esperienza quasi devastante del seminario è raccontata con amarezza e senso di impotenza per quello che è stato fatto, che forse viene ancora fatto.
“In seminario, salvo rarissime e miracolose eccezioni, hanno fatto carriera soprattutto i bugiardi, i falsi, quelli che sapevano raccontarla, i meno intelligenti, quelli che stavano sempre attenti da che parte tirava il vento, le persone più grigie. I lacché, appunto. Bambini inermi (entravano in seminario a undici anni!), poi adolescenti che diventavano adulti, costretti da regole tremende e coltivati in una serra triste ed opprimente, senza affetto, senza comuni dolcezze, senza una serenità normale” (p. 63)
La riflessione diventa tragica, quando don Bellina pensa alla responsabilità formativa nei confronti dei giovani seminaristi:
“Sono convinto che tanta cattiveria, villania, rabbia, violenza, che troppi preti hanno trasferito sulla gente, soprattutto sui bambini, al limite della follia e della perversione, dipenda da quel sistema barbaro di bloccare l’affettività e di reprimere violentemente le manifestazioni più naturali della sessualità. Chi potrà perdonare tutti questi peccati diabolici che il seminario e le istituzioni similari hanno commesso sistematicamente nei confronti di giovani onesti?” (p.92)
Il capitolo dedicato al seminario occupa buona parte dell’intera intervista: è un’urgenza quella di don Bellina di spiegare perché il “mestiere” di prete sia così difficile, ingiustamente difficile. Terrorizzati dall’idea di un Dio mostruoso pronto alla vendetta, formati alla più rigida obbedienza, tenuti lontani dagli affetti, umiliati nell’intelletto e colpevolizzati fin nel profondo riguardo alla sessualità, coloro che entravano in seminario bambini ne uscivano spesso come persone “a metà”, private di una dimensione fondamentale, quella appunto umana, mentre la vocazione sacerdotale chiama proprio a evangelizzare l’uomo nel suo complesso mondo di corpo, spirito e anima.
E tuttavia Pierantonio Bellina è un sacerdote, fedele alla propria chiamata non solo nella vita umile e nascosta nelle parrocchie carniche, dove i contadini e la gente semplice gli hanno insegnato più di tutti i libri e di tutti i preti incontrati durante gli studi, ma anche nelle gravi difficoltà di salute che accompagnarono tutti i suoi anni. Bellissime le pagine riguardanti il dolore, cui don Bellina si accosta con il rispetto di chi ha camminato per certe strade piene di sassi.
Si possono evitare tante cose, ma non il dolore e neppure la morte.
“Signore, accetto la morte, anche se mi fa paura, come fa paura a tutte le persone normali. Non farmi morire prima dell’ora. Soprattutto non farmi vivere ed agonizzare aspettando la morte”. In poche parole chiedo al Signore che la morte non si prenda il mio corpo dopo aver assassinato la mia anima. (p. 98)
E il suo desiderio viene esaudito, perché muore accasciandosi davanti al sagrato della chiesa di Basagliapenta di Basiliano, dove risiedeva negli ultimi anni.
Impegnato a far conoscere alla sua gente nella lingua che le è propria la storia e le tradizioni, e con esse e attraverso esse a conservare la memoria di sé, nell’arco di almeno quindici anni don Bellina traduce la Bibbia in lingua friulana. Un lavoro enorme (“devi conoscere bene il testo di partenza e il testo di arrivo, si tratta di fare una mediazione fra sue linguaggi senza adattamenti di sorta: nello stesso tempo devi tradurre in modo leggibile e comprensibile” p. 113), che incontra pochissimi consensi a livello ecclesiale e molti di più tra la gente, ma che, forse a causa della personalità poco “allineata” dell’Autore, non gli tributa nessuna onorificenza: saprà che una copia è stata donata al Santo Padre da una fotografia su un giornale.
Sacerdote che è riuscito a non perdere mai di vista l’uomo (a proposito dei gay, dei conviventi e di tutti quelli che la Chiesa “tiene fuori” dice “se anche mio padre e mia madre mi mandano via, dove trovo rifugio, serenità, salvezza? La Chiesa dovrebbe chiedere prima di tutto, non sei sposato in Chiesa o no, non se sei gay o no, ma cosa posso fare, come posso aiutarti? Avvicinati, entra, bevi un sorso d’acqua, siediti qui…cercherò di condividere la tua sofferenza anche se non concordo con le tue idee e scelte” p. 146), egli non rinuncia alla fede in Dio e neppure a quella in una Chiesa che gli è comunque madre, ma che dovrebbe davvero ravvedersi perché “non è facile parlare della propria madre e legare l’affetto con la lucidità, il cuore con gli occhi”. (p. 154).
E’ il cruccio di tutta la sua esistenza di uomo e di sacerdote: dare Dio alla gente, restituire la dimensione del sacro svestendola degli orpelli e di troppe intermediazioni ecclesiastiche incapaci di dare una risposta alle domande cruciali dell’esistenza.
Per questo spiega nei suoi molti scritti, ma in maniera vicina alla gente che li legge, le grandi tematiche cristiane: lontano dalla teologia – e tuttavia suo buon conoscitore – spiega in modo personale quello che lui stesso ha bisogno di capire. “Se capisco qualche cosa, il mistero ha senso; se resta assolutamente imperscrutabile, non ha senso … a me non interessa andare a rompere il giocattolo per sapere come è fatto, come sono soliti fare i bambini; a me interessa chiedermi: questo mistero, questa verità insondabile che mi viene rivelata, mi serve e in che modo? Cosa posso portare nella mia vita limitata, del mistero illimitato di Dio?” (p. 126).
Completano il libro-intervista di Plazzotta tre appendici contenenti altrettante pagine tradotte in italiano e provenienti dal libro (quattro edizioni dal 1994 al 2003) "Cirint lis olmis di Diu" e alcune pagine di aforismi, piccole pietre preziose e taglienti sulla condizione dell’uomo, del sacerdote, della Chiesa.
Mi rendo conto della pericolosità di presentare in pochi stralci il pensiero complesso e articolato che è stato alla base dell’impegno di un’intera vita.
E’ importante puntualizzare l’aderenza e la coerenza di quest’uomo alla propria chiamata, la risposta continua e impegnata alla propria vocazione e al compito educativo verso la sua gente, la distinzione ben netta fra Chiesa-istituzione e Chiesa-comunità: la prima contrastata e criticata anche aspramente, la seconda amata e servita.
In un mondo non facile per un uomo, ma meno ancora per un sacerdote, di Pierantonio Bellina restano oggi le parole profonde, e un esempio luminoso di lealtà alla sua gente e alla sua terra, alla sua fede e a sé stesso. A lui credo si adattino davvero le parole dell’Apostolo Paolo:
“Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la Fede”
(2 Timoteo, 4,7)
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Pierantonio Bellina (1941-2007), sacerdote e autore in lingua friulana di testi di argomento culturale, storico e pastorale, ha scritto numerosi editoriali per il mensile La Patrie dal Friûl e ha tenuto una rubrica sul settimanale della diocesi udinese La Vita cattolica, i cui interventi sono stati raccolti nel volume “Cirint lis olmis di Diu” (Cercando le impronte di Dio). Ha animato con fervore il gruppo religioso e culturale Glesie Furlane attraverso il quale sono state pubblicate le traduzioni della Bibbia e del Messale Romano. L’opera per cui è maggiormente noto rimane la traduzione della Bibbia in lingua friulana, ma è stato anche traduttore delle fiabe di Fedro, Esopo, La Fontaine e del Pinocchio di Collodi.
Pierantonio Bellina, La fatica di essere prete (a colloquio con Marino Plazzotta).
Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 2007
Note biografiche e bibliografia alle voci di Wikipedia in italiano e friulano.
La bibliografia delle opere è curata anche da Glesie Furlane - in medrelingua - qui.
Altri approfondimenti su vita e opere, in italiano, sul Messaggero Veneto
In memoria di G.M.
Ilde Menis, agosto 2007
fonte: http://www.lankelot.eu/index.php/2007/08/13/bellina-pierantonio-la-fatica-di-esser-prete/
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