Antonio Bellina, il sacerdote schivo che testimoniava libertà e responsabilità
“La fatica di essere prete”, l'ultimo libro dell'animatore di Glesie Furlane uscito postumo per la Biblioteca dell'Immagine
Don Antonio Bellina è morto tra le braccia del suo sacrestano, la notte di domenica 22 aprile, stroncato da un malore davanti alla chiesa di Basagliapenta, lungo la statale pontebbana che taglia in due il paese. L'ultimo sguardo si è posato su questo edificio semplice, con alcuni alberelli davanti, ma in quell'istante pre Toni ha certo ripensato alle indimenticabili, dolcissime mattine in cui ancora bambino attraversava di corsa le stradine medievali della magica Venzone per essere puntuale alla messa delle sei. «Mi inginocchiavo sul primo gradino dell'altare maggiore - raccontava - e seguivo la celebrazione guardando affascinato il mio parroco, per me allora vecchio e venerando. Se devo dar ascolto alla memoria, credo che la mia vocazione sia legata al duomo e alle funzioni che vi si tenevano, ai canti in latino che salivano come incenso». Una vocazione fresca, salda, elastica come un giunco e robusta come un caterpillar che ha riempito tutta la sua vita, una vocazione sempre accompagnata da un'esigenza assoluta di libertà, per se stesso e per gli altri, e dalla convinzione che nel rapporto con Dio e il soprannaturale ogni popolo debba esprimersi attraverso i suoi sentimenti, la sua lingua, la sua cultura, senza farsi ingabbiare e schiacciare da convenzioni o strutture di potere («Il Vaticano - diceva - ha preso in mano tutto, trasformandosi in una centrale operativa dell'omologazione. Io invece non sono per la gerarchia, ma per la libertà e la responsabilità»). Quello consegnatoci da questo prete, morto a 66 anni dopo una vita intensa, ma appartata, al di fuori della cosiddetta ufficialità e di quelle situazioni che danno facile visibilità, è in definitiva un profondo canto di libertà, canto che si sofferma con forza dirompente sugli angoli bui della Chiesa, ma che riguarda sicuramente tutti, i friulani in primo luogo, se hanno ancora un po' di passione e di cuore per occuparsi delle proprie vicende, senza farsi condizionare, come accade da sempre, da chi distrae e dispone spacciando modelli culturali e sociali calati dall'alto, di fronte ai quali si diventa inanimati testimoni più che attivi protagonisti.
In questa ricerca di libertà, esistenziale, religiosa e politica, pre Bellina era approdato a riferimenti letterari molto ampi. Per esempio, nel recente De profundis, dove narra il rapporto con la malattia che negli ultimi anni si era fatta sempre più aggressiva, trasse ispirazione da Oscar Wilde e dal libro in cui è riportata la lettera scritta dal carcere di Reading: una delle opere - affermò Bellina - più alte, più profonde, più coraggiose, più poetiche e profetiche che mente umana abbia mai concepito. La notizia della morte di pre Toni, a fine aprile, ha suscitato una strana reazione in Friuli. Da un lato c'erano la commozione vera, non di circostanza, e il dolore dei tanti che lo conoscono e lo hanno seguito sempre passo dopo passo; dall'altro lo stupore di quanti, davanti a un'eco vasta e improvvisa, si sono chiesti chi fosse questo sacerdote e da dove spuntasse. Non ci sono state vie di mezzo e del resto il doppio atteggiamento è dovuto proprio al fatto che pre Beline si è espresso sempre attraverso due soli strumenti, la predica e la scrittura. Non ha mai cercato altre vesti pubbliche, come capita al giorno d'oggi essendo diffusa la tentazione di trasformarsi in guru e profeti a buon mercato. Chi voleva conoscere il suo pensiero doveva andare la domenica nella chiesa di Basagliapenta, oppure leggere uno dei 47 libri che ha scritto o gli articoli sulla Patrie dal Friûl, che ha diretto per tanti anni, o la rubrica settimanale sulla Vita Cattolica. L'unica variante rispetto a questo modo di proporsi sono state le riflessioni affidate alle interviste per Video Tele Carnia , una piccola emittente dell'Alto But che interviene sulle cose con tempi del tutto anti-televisivi, dunque dando a chi ascolta la possibilità di capire e di emozionarsi. Nelle conversazioni, registrate in un panorama carnico, soprattutto d'estate quando il fulgore delle montagne e del verde attorno ai paesini diventa prorompente, don Bellina è stato accompagnato dalle domande poste da Marino Plazzotta. Tutto rigorosamente in friulano, un bel friulano, sciolto, agile, quasi un'altra lingua rispetto a quello che accade di ascoltare in certi riti ufficiali. Del resto Bellina, pur essendo naturalmente di madrelingua friulana (originario di Venzone e con mamma carnica), diceva di aver fatto l'università del friulano quando, giovane parroco a Rivalpo, aveva trovato come professoressa Maria de Vuiche: «Ogni giorno andavo a casa sua, e lei parlava, parlava, e mi ha insegnato anche il friulano.
Non essendo stata a scuola, il suo friulano non era contaminato dall'italiano, era vergine. Aveva un modo di parlare così bello, fluido, melodioso, preciso». Su pre Beline, adesso che non c'è più, possono cominciare le riflessioni e lunghi viaggi di conoscenza. La materia è vasta, di forte interesse e coinvolgimento. Riguarda profondamente anche i laici e non a caso il più bell'articolo in morte di Bellina lo ha scritto Tito Maniacco che, da ateo, si confrontò pubblicamente più volte con lui, in incontri intensissimi. L'importante è che la testimonianza e il canto di libertà di Bellina non siano mummificati con il tono delle celebrazioni. Il primo a dolersene e a scappar via sarebbe certamente lui. Il viaggio può dunque cominciare da una rilettura attenta dei libri, che fanno luce sui vari ruoli (di prete scomodo e scalpitante, di intellettuale curioso, di scrittore - sicuramente il più prolifico in friulano negli ultimi 30 anni -, di traduttore della Bibbia, di continuatore dell'opera sociale e politica di pre Marchetti e di pre Placereani, di animatore di Glesie Furlane per l'autonomia della nostra terra). E come punto di partenza, per tutti, sia quelli che lo amano da sempre sia quelli che lo conoscono solo ora, ci può essere il libro La fatica di essere prete, edito dalla Biblioteca dell'Immagine di Pordenone (182 pagine - 12,00 euro), uscito pochi giorni dopo la sua morte, in cui Marino Plazzotta propone i contenuti delle interviste registrate per Vtc . Il testo friulano è stato tradotto in italiano per renderlo più accessibile, ma senza togliere freschezza e significato all'originale. È un documento forte, per molti versi anche un pugno allo stomaco, soprattutto quando sollecita una Chiesa senza gerarchie e oppressioni. Sono temi su cui Bellina ha speso una vita di battaglie e di sofferenze, sempre ai limiti del consentito, perché le sue pubblicazioni (come quella famosa dedicata agli anni difficili del seminario) hanno costantemente suscitato imbarazzo e malumori negli ambienti della curia. La sua rabbia di prete estremo testimone del Patriarcato di Aquileia, di uomo da tanti definito reazionario e invece per molti aspetti rivoluzionario, contraddittorio e complesso perché appunto libero, si stemperava alla fine negli accenti della dolcezza e della poesia. Di sé diceva: «Sono arrivato al culmine della mia carriera. Infatti posso dire quello che penso, un lusso che non può permettersi neanche il Papa né il vescovo. Sono romantico, perché spero e penso che l'ultima pagina del mondo sarà una pagina di poesia. Poesia magari un po' cruenta, ma sarà poesia, perché la pura e fredda razionalità, le grandi ideologie hanno fallito e resta la verità dell'amore e l'amore è l'emblema del romanticismo».
(16 maggio 2007)da Il Messaggero Veneto
fonte: http://messaggeroveneto.gelocal.it/dettaglio/antonio-bellina-il-sacerdote-schivo-che-testimoniava-liberta-e-responsabilita/1313007
lunedì 8 dicembre 2008
La fatica di esser prete
Bellina Pierantonio - La fatica di esser prete
ildelaura
Nella storia letteraria recente del Friuli, intendo dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi, alcuni sacerdoti si sono distinti per profondità di pensiero, studio e amore per la lingua e le tradizioni locali, impegno serio soprattutto in campo culturale: spiriti liberi e anticonformisti, spesso in aperto contrasto con le gerarchie e i centri di potere politico e religioso, essi si sono adoperati in maniera non dissimile l’uno dall’altro nella salvaguardia di un’identità linguistica e storica forte, tuttavia soffocata in ogni modo e sotto molti aspetti. I loro nomi non dicono nulla al resto d’Italia, ma nella nostra terra vengono ricordati con ammirazione e riconoscenza. Giuseppe Marchetti, insigne linguista e studioso d’arte, storico e strenuo difensore delle istanze autonomistiche locali; Pietro Londero, cultore di arte e storia del Friuli; Francesco Placereani, anch’egli uomo di cultura che iniziò coraggiosamente la traduzione delle Sacre Scritture in lingua friulana; e infine Pierantonio Bellina, scomparso alcuni mesi fa, prolifico scrittore in lingua friulana (su temi pastorali e storici), ricordato soprattutto per aver portato a termine il lavoro di traduzione della Bibbia e del Messale Romano.
Pierantonio Bellina prima di essere scrittore e traduttore è però sacerdote e uomo di grande interiorità, di grande spessore e di grandi contrasti.
Il maggiore lo ha avuto con la Chiesa, in occasione di uno scritto sull’esperienza seminariale (il titolo traducibile come “La fabbrica dei preti” dovrebbe dare un’idea dei contenuti polemici) che venne pubblicato, distribuito e immediatamente ritirato dalle librerie: per nulla timoroso di esprimere il proprio punto di vista anche quando risulti scomodo e persino urtante per le gerarchie ecclesiastiche, Bellina viene intervistato dal giornalista Marino Plazzotta e l’intervista diviene libro (l’ultimo di don Bellina, pubblicato a pochi giorni dalla sua morte) e summa del pensiero espresso per anni nei numerosissimi scritti, negli editoriali del mensile “Patrie dal Friûl” e sulle pagine del settimanale “La vita cattolica”. Un pensiero profondamente umano e quasi sempre critico nei confronti di chi propone soluzioni facili o preconfezionate ai grandi problemi della vita, soprattutto nei confronti di una Chiesa che ha tradito molte aspettative sotto il profilo pastorale e formativo.
Un pensiero che affonda le radici nella umile terra che gli ha dato i natali, nella famiglia semplice e per nulla bigotta, nella vocazione maturata all’ombra delle navate del Duomo di Venzone che lo porta in seminario a soli 11 anni nel 1952, dal quale uscirà sacerdote tredici anni dopo. E poi un pensiero fatto crescere nell’esperienza quotidiana presso le parrocchie dei paesi di una Carnia abbandonata e in quelle della Bassa Friulana dove il suo “mandato terreno” termina nell’aprile di quest’anno.
Plazzotta ripercorre con domande intelligenti e incalzanti le tappe della vita umana e sacerdotale di don Bellina, introduce i suoi numerosi libri e con delicatezza ne interroga l’anima in una sorta di confessione al contrario, un dialogo tra maestro e discepolo che tuttavia non ha nulla di dotto e restituisce il sapore di una chiacchierata tra amici . L’ordine non cronologico delle interviste è atto a ricostruire le sfaccettature umane e culturali di un uomo che accetta il proprio limite, profondamente credente e proprio per questo così polemico nei confronti di una Chiesa sempre più lontana dall’uomo e dalle sue necessità.
“La Chiesa non deve rompere continuamente le scatole alla gente e predicare in maniera ossessiva e maniacale sul contraccettivo, sugli omosessuali, sulle coppie di fatto, sui divorziati, sulle cellule staminali e su questo e su quello. Basta! Se non è il papa a parlare sono pronti gli altri che hanno ogni giorno una novità da proibire. Ma lascia che la gente faccia le sue scelte, adoperi la sua testa e la sua coscienza, impari a scegliere con responsabilità e a pagare quando sceglie male! Solo così si cresce.” (p. 51)
E poco oltre:
Sarebbe ora che la Chiesa imparasse farsi domande… deve avere la sapienza e l’umiltà di imparare a farsi le grandi domande (p.71)
L’esperienza quasi devastante del seminario è raccontata con amarezza e senso di impotenza per quello che è stato fatto, che forse viene ancora fatto.
“In seminario, salvo rarissime e miracolose eccezioni, hanno fatto carriera soprattutto i bugiardi, i falsi, quelli che sapevano raccontarla, i meno intelligenti, quelli che stavano sempre attenti da che parte tirava il vento, le persone più grigie. I lacché, appunto. Bambini inermi (entravano in seminario a undici anni!), poi adolescenti che diventavano adulti, costretti da regole tremende e coltivati in una serra triste ed opprimente, senza affetto, senza comuni dolcezze, senza una serenità normale” (p. 63)
La riflessione diventa tragica, quando don Bellina pensa alla responsabilità formativa nei confronti dei giovani seminaristi:
“Sono convinto che tanta cattiveria, villania, rabbia, violenza, che troppi preti hanno trasferito sulla gente, soprattutto sui bambini, al limite della follia e della perversione, dipenda da quel sistema barbaro di bloccare l’affettività e di reprimere violentemente le manifestazioni più naturali della sessualità. Chi potrà perdonare tutti questi peccati diabolici che il seminario e le istituzioni similari hanno commesso sistematicamente nei confronti di giovani onesti?” (p.92)
Il capitolo dedicato al seminario occupa buona parte dell’intera intervista: è un’urgenza quella di don Bellina di spiegare perché il “mestiere” di prete sia così difficile, ingiustamente difficile. Terrorizzati dall’idea di un Dio mostruoso pronto alla vendetta, formati alla più rigida obbedienza, tenuti lontani dagli affetti, umiliati nell’intelletto e colpevolizzati fin nel profondo riguardo alla sessualità, coloro che entravano in seminario bambini ne uscivano spesso come persone “a metà”, private di una dimensione fondamentale, quella appunto umana, mentre la vocazione sacerdotale chiama proprio a evangelizzare l’uomo nel suo complesso mondo di corpo, spirito e anima.
E tuttavia Pierantonio Bellina è un sacerdote, fedele alla propria chiamata non solo nella vita umile e nascosta nelle parrocchie carniche, dove i contadini e la gente semplice gli hanno insegnato più di tutti i libri e di tutti i preti incontrati durante gli studi, ma anche nelle gravi difficoltà di salute che accompagnarono tutti i suoi anni. Bellissime le pagine riguardanti il dolore, cui don Bellina si accosta con il rispetto di chi ha camminato per certe strade piene di sassi.
Si possono evitare tante cose, ma non il dolore e neppure la morte.
“Signore, accetto la morte, anche se mi fa paura, come fa paura a tutte le persone normali. Non farmi morire prima dell’ora. Soprattutto non farmi vivere ed agonizzare aspettando la morte”. In poche parole chiedo al Signore che la morte non si prenda il mio corpo dopo aver assassinato la mia anima. (p. 98)
E il suo desiderio viene esaudito, perché muore accasciandosi davanti al sagrato della chiesa di Basagliapenta di Basiliano, dove risiedeva negli ultimi anni.
Impegnato a far conoscere alla sua gente nella lingua che le è propria la storia e le tradizioni, e con esse e attraverso esse a conservare la memoria di sé, nell’arco di almeno quindici anni don Bellina traduce la Bibbia in lingua friulana. Un lavoro enorme (“devi conoscere bene il testo di partenza e il testo di arrivo, si tratta di fare una mediazione fra sue linguaggi senza adattamenti di sorta: nello stesso tempo devi tradurre in modo leggibile e comprensibile” p. 113), che incontra pochissimi consensi a livello ecclesiale e molti di più tra la gente, ma che, forse a causa della personalità poco “allineata” dell’Autore, non gli tributa nessuna onorificenza: saprà che una copia è stata donata al Santo Padre da una fotografia su un giornale.
Sacerdote che è riuscito a non perdere mai di vista l’uomo (a proposito dei gay, dei conviventi e di tutti quelli che la Chiesa “tiene fuori” dice “se anche mio padre e mia madre mi mandano via, dove trovo rifugio, serenità, salvezza? La Chiesa dovrebbe chiedere prima di tutto, non sei sposato in Chiesa o no, non se sei gay o no, ma cosa posso fare, come posso aiutarti? Avvicinati, entra, bevi un sorso d’acqua, siediti qui…cercherò di condividere la tua sofferenza anche se non concordo con le tue idee e scelte” p. 146), egli non rinuncia alla fede in Dio e neppure a quella in una Chiesa che gli è comunque madre, ma che dovrebbe davvero ravvedersi perché “non è facile parlare della propria madre e legare l’affetto con la lucidità, il cuore con gli occhi”. (p. 154).
E’ il cruccio di tutta la sua esistenza di uomo e di sacerdote: dare Dio alla gente, restituire la dimensione del sacro svestendola degli orpelli e di troppe intermediazioni ecclesiastiche incapaci di dare una risposta alle domande cruciali dell’esistenza.
Per questo spiega nei suoi molti scritti, ma in maniera vicina alla gente che li legge, le grandi tematiche cristiane: lontano dalla teologia – e tuttavia suo buon conoscitore – spiega in modo personale quello che lui stesso ha bisogno di capire. “Se capisco qualche cosa, il mistero ha senso; se resta assolutamente imperscrutabile, non ha senso … a me non interessa andare a rompere il giocattolo per sapere come è fatto, come sono soliti fare i bambini; a me interessa chiedermi: questo mistero, questa verità insondabile che mi viene rivelata, mi serve e in che modo? Cosa posso portare nella mia vita limitata, del mistero illimitato di Dio?” (p. 126).
Completano il libro-intervista di Plazzotta tre appendici contenenti altrettante pagine tradotte in italiano e provenienti dal libro (quattro edizioni dal 1994 al 2003) "Cirint lis olmis di Diu" e alcune pagine di aforismi, piccole pietre preziose e taglienti sulla condizione dell’uomo, del sacerdote, della Chiesa.
Mi rendo conto della pericolosità di presentare in pochi stralci il pensiero complesso e articolato che è stato alla base dell’impegno di un’intera vita.
E’ importante puntualizzare l’aderenza e la coerenza di quest’uomo alla propria chiamata, la risposta continua e impegnata alla propria vocazione e al compito educativo verso la sua gente, la distinzione ben netta fra Chiesa-istituzione e Chiesa-comunità: la prima contrastata e criticata anche aspramente, la seconda amata e servita.
In un mondo non facile per un uomo, ma meno ancora per un sacerdote, di Pierantonio Bellina restano oggi le parole profonde, e un esempio luminoso di lealtà alla sua gente e alla sua terra, alla sua fede e a sé stesso. A lui credo si adattino davvero le parole dell’Apostolo Paolo:
“Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la Fede”
(2 Timoteo, 4,7)
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Pierantonio Bellina (1941-2007), sacerdote e autore in lingua friulana di testi di argomento culturale, storico e pastorale, ha scritto numerosi editoriali per il mensile La Patrie dal Friûl e ha tenuto una rubrica sul settimanale della diocesi udinese La Vita cattolica, i cui interventi sono stati raccolti nel volume “Cirint lis olmis di Diu” (Cercando le impronte di Dio). Ha animato con fervore il gruppo religioso e culturale Glesie Furlane attraverso il quale sono state pubblicate le traduzioni della Bibbia e del Messale Romano. L’opera per cui è maggiormente noto rimane la traduzione della Bibbia in lingua friulana, ma è stato anche traduttore delle fiabe di Fedro, Esopo, La Fontaine e del Pinocchio di Collodi.
Pierantonio Bellina, La fatica di essere prete (a colloquio con Marino Plazzotta).
Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 2007
Note biografiche e bibliografia alle voci di Wikipedia in italiano e friulano.
La bibliografia delle opere è curata anche da Glesie Furlane - in medrelingua - qui.
Altri approfondimenti su vita e opere, in italiano, sul Messaggero Veneto
In memoria di G.M.
Ilde Menis, agosto 2007
fonte: http://www.lankelot.eu/index.php/2007/08/13/bellina-pierantonio-la-fatica-di-esser-prete/
ildelaura
Nella storia letteraria recente del Friuli, intendo dagli anni Cinquanta del Novecento a oggi, alcuni sacerdoti si sono distinti per profondità di pensiero, studio e amore per la lingua e le tradizioni locali, impegno serio soprattutto in campo culturale: spiriti liberi e anticonformisti, spesso in aperto contrasto con le gerarchie e i centri di potere politico e religioso, essi si sono adoperati in maniera non dissimile l’uno dall’altro nella salvaguardia di un’identità linguistica e storica forte, tuttavia soffocata in ogni modo e sotto molti aspetti. I loro nomi non dicono nulla al resto d’Italia, ma nella nostra terra vengono ricordati con ammirazione e riconoscenza. Giuseppe Marchetti, insigne linguista e studioso d’arte, storico e strenuo difensore delle istanze autonomistiche locali; Pietro Londero, cultore di arte e storia del Friuli; Francesco Placereani, anch’egli uomo di cultura che iniziò coraggiosamente la traduzione delle Sacre Scritture in lingua friulana; e infine Pierantonio Bellina, scomparso alcuni mesi fa, prolifico scrittore in lingua friulana (su temi pastorali e storici), ricordato soprattutto per aver portato a termine il lavoro di traduzione della Bibbia e del Messale Romano.
Pierantonio Bellina prima di essere scrittore e traduttore è però sacerdote e uomo di grande interiorità, di grande spessore e di grandi contrasti.
Il maggiore lo ha avuto con la Chiesa, in occasione di uno scritto sull’esperienza seminariale (il titolo traducibile come “La fabbrica dei preti” dovrebbe dare un’idea dei contenuti polemici) che venne pubblicato, distribuito e immediatamente ritirato dalle librerie: per nulla timoroso di esprimere il proprio punto di vista anche quando risulti scomodo e persino urtante per le gerarchie ecclesiastiche, Bellina viene intervistato dal giornalista Marino Plazzotta e l’intervista diviene libro (l’ultimo di don Bellina, pubblicato a pochi giorni dalla sua morte) e summa del pensiero espresso per anni nei numerosissimi scritti, negli editoriali del mensile “Patrie dal Friûl” e sulle pagine del settimanale “La vita cattolica”. Un pensiero profondamente umano e quasi sempre critico nei confronti di chi propone soluzioni facili o preconfezionate ai grandi problemi della vita, soprattutto nei confronti di una Chiesa che ha tradito molte aspettative sotto il profilo pastorale e formativo.
Un pensiero che affonda le radici nella umile terra che gli ha dato i natali, nella famiglia semplice e per nulla bigotta, nella vocazione maturata all’ombra delle navate del Duomo di Venzone che lo porta in seminario a soli 11 anni nel 1952, dal quale uscirà sacerdote tredici anni dopo. E poi un pensiero fatto crescere nell’esperienza quotidiana presso le parrocchie dei paesi di una Carnia abbandonata e in quelle della Bassa Friulana dove il suo “mandato terreno” termina nell’aprile di quest’anno.
Plazzotta ripercorre con domande intelligenti e incalzanti le tappe della vita umana e sacerdotale di don Bellina, introduce i suoi numerosi libri e con delicatezza ne interroga l’anima in una sorta di confessione al contrario, un dialogo tra maestro e discepolo che tuttavia non ha nulla di dotto e restituisce il sapore di una chiacchierata tra amici . L’ordine non cronologico delle interviste è atto a ricostruire le sfaccettature umane e culturali di un uomo che accetta il proprio limite, profondamente credente e proprio per questo così polemico nei confronti di una Chiesa sempre più lontana dall’uomo e dalle sue necessità.
“La Chiesa non deve rompere continuamente le scatole alla gente e predicare in maniera ossessiva e maniacale sul contraccettivo, sugli omosessuali, sulle coppie di fatto, sui divorziati, sulle cellule staminali e su questo e su quello. Basta! Se non è il papa a parlare sono pronti gli altri che hanno ogni giorno una novità da proibire. Ma lascia che la gente faccia le sue scelte, adoperi la sua testa e la sua coscienza, impari a scegliere con responsabilità e a pagare quando sceglie male! Solo così si cresce.” (p. 51)
E poco oltre:
Sarebbe ora che la Chiesa imparasse farsi domande… deve avere la sapienza e l’umiltà di imparare a farsi le grandi domande (p.71)
L’esperienza quasi devastante del seminario è raccontata con amarezza e senso di impotenza per quello che è stato fatto, che forse viene ancora fatto.
“In seminario, salvo rarissime e miracolose eccezioni, hanno fatto carriera soprattutto i bugiardi, i falsi, quelli che sapevano raccontarla, i meno intelligenti, quelli che stavano sempre attenti da che parte tirava il vento, le persone più grigie. I lacché, appunto. Bambini inermi (entravano in seminario a undici anni!), poi adolescenti che diventavano adulti, costretti da regole tremende e coltivati in una serra triste ed opprimente, senza affetto, senza comuni dolcezze, senza una serenità normale” (p. 63)
La riflessione diventa tragica, quando don Bellina pensa alla responsabilità formativa nei confronti dei giovani seminaristi:
“Sono convinto che tanta cattiveria, villania, rabbia, violenza, che troppi preti hanno trasferito sulla gente, soprattutto sui bambini, al limite della follia e della perversione, dipenda da quel sistema barbaro di bloccare l’affettività e di reprimere violentemente le manifestazioni più naturali della sessualità. Chi potrà perdonare tutti questi peccati diabolici che il seminario e le istituzioni similari hanno commesso sistematicamente nei confronti di giovani onesti?” (p.92)
Il capitolo dedicato al seminario occupa buona parte dell’intera intervista: è un’urgenza quella di don Bellina di spiegare perché il “mestiere” di prete sia così difficile, ingiustamente difficile. Terrorizzati dall’idea di un Dio mostruoso pronto alla vendetta, formati alla più rigida obbedienza, tenuti lontani dagli affetti, umiliati nell’intelletto e colpevolizzati fin nel profondo riguardo alla sessualità, coloro che entravano in seminario bambini ne uscivano spesso come persone “a metà”, private di una dimensione fondamentale, quella appunto umana, mentre la vocazione sacerdotale chiama proprio a evangelizzare l’uomo nel suo complesso mondo di corpo, spirito e anima.
E tuttavia Pierantonio Bellina è un sacerdote, fedele alla propria chiamata non solo nella vita umile e nascosta nelle parrocchie carniche, dove i contadini e la gente semplice gli hanno insegnato più di tutti i libri e di tutti i preti incontrati durante gli studi, ma anche nelle gravi difficoltà di salute che accompagnarono tutti i suoi anni. Bellissime le pagine riguardanti il dolore, cui don Bellina si accosta con il rispetto di chi ha camminato per certe strade piene di sassi.
Si possono evitare tante cose, ma non il dolore e neppure la morte.
“Signore, accetto la morte, anche se mi fa paura, come fa paura a tutte le persone normali. Non farmi morire prima dell’ora. Soprattutto non farmi vivere ed agonizzare aspettando la morte”. In poche parole chiedo al Signore che la morte non si prenda il mio corpo dopo aver assassinato la mia anima. (p. 98)
E il suo desiderio viene esaudito, perché muore accasciandosi davanti al sagrato della chiesa di Basagliapenta di Basiliano, dove risiedeva negli ultimi anni.
Impegnato a far conoscere alla sua gente nella lingua che le è propria la storia e le tradizioni, e con esse e attraverso esse a conservare la memoria di sé, nell’arco di almeno quindici anni don Bellina traduce la Bibbia in lingua friulana. Un lavoro enorme (“devi conoscere bene il testo di partenza e il testo di arrivo, si tratta di fare una mediazione fra sue linguaggi senza adattamenti di sorta: nello stesso tempo devi tradurre in modo leggibile e comprensibile” p. 113), che incontra pochissimi consensi a livello ecclesiale e molti di più tra la gente, ma che, forse a causa della personalità poco “allineata” dell’Autore, non gli tributa nessuna onorificenza: saprà che una copia è stata donata al Santo Padre da una fotografia su un giornale.
Sacerdote che è riuscito a non perdere mai di vista l’uomo (a proposito dei gay, dei conviventi e di tutti quelli che la Chiesa “tiene fuori” dice “se anche mio padre e mia madre mi mandano via, dove trovo rifugio, serenità, salvezza? La Chiesa dovrebbe chiedere prima di tutto, non sei sposato in Chiesa o no, non se sei gay o no, ma cosa posso fare, come posso aiutarti? Avvicinati, entra, bevi un sorso d’acqua, siediti qui…cercherò di condividere la tua sofferenza anche se non concordo con le tue idee e scelte” p. 146), egli non rinuncia alla fede in Dio e neppure a quella in una Chiesa che gli è comunque madre, ma che dovrebbe davvero ravvedersi perché “non è facile parlare della propria madre e legare l’affetto con la lucidità, il cuore con gli occhi”. (p. 154).
E’ il cruccio di tutta la sua esistenza di uomo e di sacerdote: dare Dio alla gente, restituire la dimensione del sacro svestendola degli orpelli e di troppe intermediazioni ecclesiastiche incapaci di dare una risposta alle domande cruciali dell’esistenza.
Per questo spiega nei suoi molti scritti, ma in maniera vicina alla gente che li legge, le grandi tematiche cristiane: lontano dalla teologia – e tuttavia suo buon conoscitore – spiega in modo personale quello che lui stesso ha bisogno di capire. “Se capisco qualche cosa, il mistero ha senso; se resta assolutamente imperscrutabile, non ha senso … a me non interessa andare a rompere il giocattolo per sapere come è fatto, come sono soliti fare i bambini; a me interessa chiedermi: questo mistero, questa verità insondabile che mi viene rivelata, mi serve e in che modo? Cosa posso portare nella mia vita limitata, del mistero illimitato di Dio?” (p. 126).
Completano il libro-intervista di Plazzotta tre appendici contenenti altrettante pagine tradotte in italiano e provenienti dal libro (quattro edizioni dal 1994 al 2003) "Cirint lis olmis di Diu" e alcune pagine di aforismi, piccole pietre preziose e taglienti sulla condizione dell’uomo, del sacerdote, della Chiesa.
Mi rendo conto della pericolosità di presentare in pochi stralci il pensiero complesso e articolato che è stato alla base dell’impegno di un’intera vita.
E’ importante puntualizzare l’aderenza e la coerenza di quest’uomo alla propria chiamata, la risposta continua e impegnata alla propria vocazione e al compito educativo verso la sua gente, la distinzione ben netta fra Chiesa-istituzione e Chiesa-comunità: la prima contrastata e criticata anche aspramente, la seconda amata e servita.
In un mondo non facile per un uomo, ma meno ancora per un sacerdote, di Pierantonio Bellina restano oggi le parole profonde, e un esempio luminoso di lealtà alla sua gente e alla sua terra, alla sua fede e a sé stesso. A lui credo si adattino davvero le parole dell’Apostolo Paolo:
“Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la Fede”
(2 Timoteo, 4,7)
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE
Pierantonio Bellina (1941-2007), sacerdote e autore in lingua friulana di testi di argomento culturale, storico e pastorale, ha scritto numerosi editoriali per il mensile La Patrie dal Friûl e ha tenuto una rubrica sul settimanale della diocesi udinese La Vita cattolica, i cui interventi sono stati raccolti nel volume “Cirint lis olmis di Diu” (Cercando le impronte di Dio). Ha animato con fervore il gruppo religioso e culturale Glesie Furlane attraverso il quale sono state pubblicate le traduzioni della Bibbia e del Messale Romano. L’opera per cui è maggiormente noto rimane la traduzione della Bibbia in lingua friulana, ma è stato anche traduttore delle fiabe di Fedro, Esopo, La Fontaine e del Pinocchio di Collodi.
Pierantonio Bellina, La fatica di essere prete (a colloquio con Marino Plazzotta).
Pordenone, Biblioteca dell’Immagine, 2007
Note biografiche e bibliografia alle voci di Wikipedia in italiano e friulano.
La bibliografia delle opere è curata anche da Glesie Furlane - in medrelingua - qui.
Altri approfondimenti su vita e opere, in italiano, sul Messaggero Veneto
In memoria di G.M.
Ilde Menis, agosto 2007
fonte: http://www.lankelot.eu/index.php/2007/08/13/bellina-pierantonio-la-fatica-di-esser-prete/
Iscriviti a:
Post (Atom)