STORIE SACRE
Questo libro (di gran formato) è L'ULTIMA FATICA letteraria in lingua friulana di pre Toni Beline, stampato nel marzo 2007 da LitoImmagine di Rodeano per conto di Glesie Furlane e uscito nelle librerie post mortem dell'autore.
Un tempo esistevano (esistono ancora?) vari libri che spiegavano ai bambini (ma anche ai grandi) la Storia Sacra, cioè gli episodi più importanti e più significativi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Si trattava di opuscoli godibili, spesso ingenui, mediante i quali però molta parte degli adulti odierni ha inizialmente preso contatto con la Bibbia...
Ebbene questo libro si colloca in questa scia: vuole donare i primi rudimenti biblici ai bambini che sempre più spesso ignorano queste antiche storie sapienziali mentre sanno tutto di Pokemon e di Superman... secondo i canoni del politicamente corretto di oggi!
Ma la carettersitiche sostanziali di quest'opera sono tre, che diversificano nettamente questo libro dagli analoghi di un tempo e dai contemporanei:
1. Il libro è scritto in friulano e soprattutto nel friulano schietto e vivacissimo di pre Toni Beline.
2. Il testo non è in prosa ma in poesia (a rima baciata), attraverso cui la sensibilità dell'autore trova qui la massima ispirazione e la massima realizzazione. Pre Toni, conoscitore profondissimo della Bibbia (avendola egli tradotta interamente in friulano) riesce in maniera naturale a trasporre in poesia popolare concetti e fatti a volte anche difficili da realizzare in italiano e lo fa con semplicità e candore, senza forzature lessicali. Nè tralascia di proporre anche aspetti propri del suo credere e sentire come quando scrive:
Par chel la nestre glesie no jè dome catoliche
ma e vante une origjne apostoliche.
In gracie dai sants Ermacure e Fortunat
chi di nô al è nassût un patriarcjât.
riferendosi chiaramente alla evangelizzazione di Aquilieia da parte dell'apostolo ed evangelista Marco.
3. Le illustrazioni di Emanuela Riccioni costituiscono a loro volta delle vere e proprie opere d'arte in un'opera d'arte. Si tratta di illustrazioni, adattissime ai bambini, realizzate mediante collage di materiali vari che, in un amalgama ritmicamente ordinato, creano ambienti e figure che ben si adattano al testo poetico friulano a fronte. "E' come recitare una preghiera con i colori" sottolinea l'autrice.
La presentazione di questo splendido libro è di mons. Lucio Soravito, carnico di Mione di Ovaro, attualmente vescovo di Adria-Rovigo (l'unico vescovo carnico in circolazione!). In queste righe il vescovo traccia l'iter religioso-letterario di pre Toni Beline, riconoscendogli vari meriti, non ultima la capacità di saper spezzare il pane della Parola di Dio per coloro che non dimostrano di averne troppa fame... In cheste ete di savoltament,
e pò judati a cjatâ un orientament.
Il contenuto del libro presenta 24 episodi dell'Antico Testamento (Creazione del mondo, Peccato originale, Caino e Abele, il diluvio...) e ben 39 del Nuovo Testamento (Natale, i magi, il battesimo, le tentazioni di Cristo...).
Un testo poetico che potrebbe diventare un utilissimo ausilio scolastico nelle scuole materne e nelle elementari (garantisti religiosi permettendo), sia mediante l'apprendimento delle poesie sia mediante la visualizzazione delle figure...
Sperin benon... Speriamo che pre Toni Beline, dalla Casa del Padre dove attualmente si trova, mandi qualche segnale...
Per chi ha un bambino piccolo, questo libro rappresenta un magnifico ed utilissimo regalo, capace di sviluppare e di stimolare le migliori facoltà intellettive e umane e soprattutto in grado di indirizzarlo su un percorso formativo sicuramente positivo, che lo porterà ad una maturazione adulta consapevole ed equilibrata. Perchè, dopo tutto, qui si trova la sapienza dei nostri padri e delle nostre madri, dei nostri antenati, che hanno quotidianamente masticato e metabolizzato queste storie di vita alle quali spesso si uniformarono e sul cui insegnamento vissero.
martedì 20 luglio 2010
FLABIS DI FEDRO
FLABIS DI FEDRO
"Lupus et agnus ad eundem rivum venerant, siti compulsi..."
Chi non ricorda l'incipit della più famosa favola di Fedro, scrittore latino nato in Macedonia (la Carnia della Grecia!), che abbiamo imparato a conoscere fin dalla prima media dei temporibus illis?
Oggi purtroppo non è più quel tempo e chi è sopra la cinquantina rischia di trovarsi spesso ad essere un laudator temporis acti...
Abbiamo volutamente inserito il latinorum non per scoraggiare chi legge ma per far capire che pre Toni Beline ha preso tutto il latino (oggi incompresibile ai più) di Fedro e lo tradotto in marilenghe, ancora nel lontano 1974, quando parlare di tutela e di uso letterario della lingua friulana era scandalo, pazzia, balordaggine, vezzo assurdo, tic da nevrotici...
Oggi sulla tutela della lingua friulana vi è addirittura chi lucra lautamente: eterogensi dei fini?
Pre Toni ha tradotto in friulano tutte le 71 favole latine di Fedro e le ha riproposte in una veste letteraria accattivante, semplice, comprensibilissima...
"Un lôf e un agnel a erin vignûz a distudâ la seit in tal stess riu..."
Ma se la traduzione rispetta totalmente il motivo ed il pensiero di Fedro, Toni Beline aggiunge ed evidenzia due aspetti singolari che, pur non essendo farina di Fedro, rispecchierebbero certamente oggi il suo pensiero:
1. la cornice che dà unità alle 71 favole è rappresentata dal tema, ancor oggi attuale, della contrapposizione tra Trieste ed il Friuli storico (UD-GO-PN); non a caso la copertina richiama subito la centralità di questo argomento che, negli anni Settanta del secolo scorso, aveva a lungo costituito il cavallo di battaglia del Movimento Friuli, cui aveva entusiasticamente aderito anche pre Toni Bellina. Era stata una battaglia aspra e lunga che il terremoto del 1976 aveva reso ancora più acuta ma che si è poi mestamente conclusa alla fine degli anni Novanta, quando, dopo la scelta definitiva del capoluogo regionale (Trieste), anche il presidente della Giunta Regionale fu triestino (prima Antonione e poi Illy): queste due situazioni determinarono la sconfitta del Friuli storico, diventato ormai, anche per stupide contrapposizioni intestine, una mera appendice di Trieste (città che negli anni '70 era percepita dai friulani come l'appendicite del Friuli).
2. Al termine di ogni favola, pre Toni Beline aggiunge una noticina personale che, agganciandosi al raccontino appena concluso, attualizza la vicenda con richiami e paragoni al Friuli ed ai friulani degli anni Settanta: che restano attualissimi anche oggi. Provare per credere.
Questo libro, insieme alle FLABIS DI ESOPO, merita una rivisitazione ed una rimeditazione... specie da parte dei nostri attuali politici regionali eletti in Carnia e in Friuli. Ma il volumetto, oggi quasi introvabile, è indirizzato a tutte le persone di biona volontà...
"Lupus et agnus ad eundem rivum venerant, siti compulsi..."
Chi non ricorda l'incipit della più famosa favola di Fedro, scrittore latino nato in Macedonia (la Carnia della Grecia!), che abbiamo imparato a conoscere fin dalla prima media dei temporibus illis?
Oggi purtroppo non è più quel tempo e chi è sopra la cinquantina rischia di trovarsi spesso ad essere un laudator temporis acti...
Abbiamo volutamente inserito il latinorum non per scoraggiare chi legge ma per far capire che pre Toni Beline ha preso tutto il latino (oggi incompresibile ai più) di Fedro e lo tradotto in marilenghe, ancora nel lontano 1974, quando parlare di tutela e di uso letterario della lingua friulana era scandalo, pazzia, balordaggine, vezzo assurdo, tic da nevrotici...
Oggi sulla tutela della lingua friulana vi è addirittura chi lucra lautamente: eterogensi dei fini?
Pre Toni ha tradotto in friulano tutte le 71 favole latine di Fedro e le ha riproposte in una veste letteraria accattivante, semplice, comprensibilissima...
"Un lôf e un agnel a erin vignûz a distudâ la seit in tal stess riu..."
Ma se la traduzione rispetta totalmente il motivo ed il pensiero di Fedro, Toni Beline aggiunge ed evidenzia due aspetti singolari che, pur non essendo farina di Fedro, rispecchierebbero certamente oggi il suo pensiero:
1. la cornice che dà unità alle 71 favole è rappresentata dal tema, ancor oggi attuale, della contrapposizione tra Trieste ed il Friuli storico (UD-GO-PN); non a caso la copertina richiama subito la centralità di questo argomento che, negli anni Settanta del secolo scorso, aveva a lungo costituito il cavallo di battaglia del Movimento Friuli, cui aveva entusiasticamente aderito anche pre Toni Bellina. Era stata una battaglia aspra e lunga che il terremoto del 1976 aveva reso ancora più acuta ma che si è poi mestamente conclusa alla fine degli anni Novanta, quando, dopo la scelta definitiva del capoluogo regionale (Trieste), anche il presidente della Giunta Regionale fu triestino (prima Antonione e poi Illy): queste due situazioni determinarono la sconfitta del Friuli storico, diventato ormai, anche per stupide contrapposizioni intestine, una mera appendice di Trieste (città che negli anni '70 era percepita dai friulani come l'appendicite del Friuli).
2. Al termine di ogni favola, pre Toni Beline aggiunge una noticina personale che, agganciandosi al raccontino appena concluso, attualizza la vicenda con richiami e paragoni al Friuli ed ai friulani degli anni Settanta: che restano attualissimi anche oggi. Provare per credere.
Questo libro, insieme alle FLABIS DI ESOPO, merita una rivisitazione ed una rimeditazione... specie da parte dei nostri attuali politici regionali eletti in Carnia e in Friuli. Ma il volumetto, oggi quasi introvabile, è indirizzato a tutte le persone di biona volontà...
FLABIS DI ESOPO
FLABIS DI ESOPO
Nel 1978, esattamente 4 anni dopo la pubblicazione di FLABIS DI FEDRO, Pre Toni Beline pubblicò questo secondo volumetto che raccoglie le favole di Esopo, scrittore greco, ritenuto il padre letterario e spirituale del latino Fedro e vissuto circa 500 anni prima di Cristo.
Esopo è uno scrittore assai meno conosciuto di Fedro, tuttavia le sue favole "istruttive" non sono da meno di quelle del suo allievo latino che "ridendo castigat mores" cioè: fustigava i costumi del tempo con il riso.
Certo che oggi (aprile 2007), sia Fedro che Esopo potrebbero disporre di un materiale immenso ricavandolo dalla quotidianità italiana (vallettopoli in primis) per lanciare i loro strali con il sorriso (amaro) sulla bocca.
Anche in questo caso valgono le note espresse in FLABIS DI FEDRO (vedi) e cioè:
1. la cornice che dà unità alle 88 favole di Esopo è rappresentata dal tema, ancor oggi attuale, della contrapposizione tra Trieste ed il Friuli storico (UD-GO-PN); non a caso la copertina (il Friuli nelle fauci di Trieste) richiama subito la centralità di questo argomento che, negli anni Settanta del secolo scorso, aveva a lungo costituito il cavallo (e cavillo) di battaglia del Movimento Friuli, cui aveva entusiasticamente aderito anche pre Toni Bellina. Era stata una battaglia aspra e lunga che il terremoto del 1976 aveva ancora più acuito ma che si è poi mestamente conclusa alla fine degli anni Novanta, quando, dopo la scelta definitiva del capoluogo regionale (Trieste), anche il presidente della Giunta Regionale (contrariamente agli antichi patti non scritti) fu triestino (prima Antonione e poi Illy): queste due situazioni determinarono la sconfitta (ampiamente prevista da pre Toni nelle sue favolette) del Friuli storico, diventato ormai, anche per stupide contrapposizioni intestine, una mera appendice di Trieste (città che negli anni '70 era percepita dai friulani come l'appendicite del Friuli, sia in senso geografico che economico che politico).
2. Al termine di ogni favoletta, pre Toni Beline aggiunge una noticina personale che, agganciandosi al raccontino appena concluso, attualizza la vicenda con richiami e paragoni al Friuli ed ai friulani degli anni Settanta: che restano attualissimi anche oggi.
Questo libro, insieme alle FLABIS DI ESOPO, merita una rivisitazione ed una rimeditazione... specie da parte dei nostri illuminati politici regionali eletti in Carnia e in Friuli. Ma non farebbe male neppure ai cittadini comuni, alla cosidetta società civile (volendo essere politicamente corretti)...
Anche ai bambini farebbe bene questa pedagogia universale in pillole friulane, specie ai più piccoli, che aquisirebbero così i rudimenti per un futuro discernimento nella vita di adulti.
Nel 1978, esattamente 4 anni dopo la pubblicazione di FLABIS DI FEDRO, Pre Toni Beline pubblicò questo secondo volumetto che raccoglie le favole di Esopo, scrittore greco, ritenuto il padre letterario e spirituale del latino Fedro e vissuto circa 500 anni prima di Cristo.
Esopo è uno scrittore assai meno conosciuto di Fedro, tuttavia le sue favole "istruttive" non sono da meno di quelle del suo allievo latino che "ridendo castigat mores" cioè: fustigava i costumi del tempo con il riso.
Certo che oggi (aprile 2007), sia Fedro che Esopo potrebbero disporre di un materiale immenso ricavandolo dalla quotidianità italiana (vallettopoli in primis) per lanciare i loro strali con il sorriso (amaro) sulla bocca.
Anche in questo caso valgono le note espresse in FLABIS DI FEDRO (vedi) e cioè:
1. la cornice che dà unità alle 88 favole di Esopo è rappresentata dal tema, ancor oggi attuale, della contrapposizione tra Trieste ed il Friuli storico (UD-GO-PN); non a caso la copertina (il Friuli nelle fauci di Trieste) richiama subito la centralità di questo argomento che, negli anni Settanta del secolo scorso, aveva a lungo costituito il cavallo (e cavillo) di battaglia del Movimento Friuli, cui aveva entusiasticamente aderito anche pre Toni Bellina. Era stata una battaglia aspra e lunga che il terremoto del 1976 aveva ancora più acuito ma che si è poi mestamente conclusa alla fine degli anni Novanta, quando, dopo la scelta definitiva del capoluogo regionale (Trieste), anche il presidente della Giunta Regionale (contrariamente agli antichi patti non scritti) fu triestino (prima Antonione e poi Illy): queste due situazioni determinarono la sconfitta (ampiamente prevista da pre Toni nelle sue favolette) del Friuli storico, diventato ormai, anche per stupide contrapposizioni intestine, una mera appendice di Trieste (città che negli anni '70 era percepita dai friulani come l'appendicite del Friuli, sia in senso geografico che economico che politico).
2. Al termine di ogni favoletta, pre Toni Beline aggiunge una noticina personale che, agganciandosi al raccontino appena concluso, attualizza la vicenda con richiami e paragoni al Friuli ed ai friulani degli anni Settanta: che restano attualissimi anche oggi.
Questo libro, insieme alle FLABIS DI ESOPO, merita una rivisitazione ed una rimeditazione... specie da parte dei nostri illuminati politici regionali eletti in Carnia e in Friuli. Ma non farebbe male neppure ai cittadini comuni, alla cosidetta società civile (volendo essere politicamente corretti)...
Anche ai bambini farebbe bene questa pedagogia universale in pillole friulane, specie ai più piccoli, che aquisirebbero così i rudimenti per un futuro discernimento nella vita di adulti.
LA SCOMPARSA DI UN LIBRO
di Marino Plazzotta
la fabriche dai predis
Nella società in cui viviamo dobbiamo abituarci a tutto, dalla mucca pazza, all’uranio impoverito, al plutonio, alle pasticche di extasy, al commercio di ogni cosa , dai bimbi agli organi umani. Insomma ci dobbiamo abituare a vederne o sentirne di tutti i colori! Ma mai mi sarei aspettato, nel 2000, di constatare la sparizione dalle librerie di un un libro che aveva appena “visto la luce”, ancora intonso.
Mi riferisco al “ LA FABRICHE DAI PREDIS” scritto da Don Antonio Bellina e che improvvisamente per decisione di non so qual fantomatico “ Sant’Uffizio” è stato tolto dalla circolazione.
Senza grande scalpore o proteste si è ripetuta l’operazione che Ray Bradbury descrive in “Fahrenheit 451” , dove il corpo dei pompieri è impiegato a distruggere tutti i libri considerati fuori legge.
Anche a Udine, a distanza di secoli, si è ripresentato un severo Torquemada che , non si sa bene con quale diritto, né con quali poteri è riuscito , “senza il rumore della litigiosità” , ad eliminare un libro che non potrà nemmeno essere segnalato nell’ “Index Librorum Prohibitorum” di triste memoria.
Il libro di don Antonio Bellina è letteralmente scomparso.
Della sparizione mi sono accorto per caso, quando, dopo aver acquistato regolarmente la copia che ho sotto gli occhi, mi sono recato in libreria per acquistarne una da regalare ad un amico. “Il libro non si trova più in commercio” , mi ha risposto il libraio.
Ho fatto qualche indagine ed ho scoperto che per decisione di un Sinedrio diocesano il libro non poteva essere più di pubblica consultazione e non solo veniva messo all’indice, ormai soppresso, ma fatto sparire per il bene di tutti. La mia prima reazione è stata di incredulità: non mi sembrava possibile che nell’anno giubilare, con un papa che chiede perdono a tutti, perfino della santa Inquisizione, si arrivasse in una provincia, nemmeno tanto religiosa, ad eliminare un bellissimo libro autobiografico!
E’ successo.
E sono qui a raccontarvi quello che ho scoperto in questa sofferta storia che mi ha fatto apprezzare ancora di più il mio Sciorsantul, che nonostante tutto, è riuscito a salvarsi con dignità e umanità, da una scuola che si prefiggeva di sfornare preti tutti uguali, tutti fieri, tutti pieni di sé e potenti. Il mio Sciorsantul si è salvato, perché dentro di sé ha trovato dei valori che nessun docente è riuscito ad eliminare. Ha ritrovata un’anima in cui vivevano suo padre e sua madre, e tutti gli avi che se ne sono andati non senza lasciare una forte , determinante impronta. Senza questo passato anche il mio Sciorsantul sarebbe diventato un prodotto confezionato e impacchettato dalla “fabriche” e comandato e dislocato a piacere sulla scacchiera della diocesi.
Don Antonio Bellina è un prete scomodo, perché dice il vero e lo sa scrivere bene. E scrive tanto.
Ha portato a termine la traduzione della Bibbia in Friulano, iniziata con un altro prete scomodo, Don Placereani.
Come Isaac Singer, premio nobel per la letteratura, che ha scritto sempre e solo in yiddish, idioma delle comunità ebraiche orientali, Don Bellina ha scritto e scrive rigorosamente solo in friulano. Questo è il bello e il brutto di una mente e di un uomo eccezionale per i sentimenti, le emozioni, le convinzioni, che riesce a comunicare: il friulano come limite , non come prerogativa, come strumento comunicativo!
E’ un prete non etichettabile, genericamente o facilmente, nella classe clericale , ma è comunque un uomo in pace con se stesso.
E’ stato ed è una voce fuori dal coro , già da quando vent’anni fa scriveva : “La veretât e jè che che il gleseam al copie dutis lis pecjis dal stât…E come il stât al bandone i paîs plui picui e al siere scuelis e nol dà un avignî e nissune comuditât di sorte…cussi la glesie. Là che no coventin predis and’è di vendi, la che a coventin no s’incjate”, ma il modo con cui è stato trattato questo ultimo suo libro, la dice lunga su come la chiesa testimoni ed interpreti la tolleranza. (Probabilmente la chiesa quando dice “mea culpa”, intende tutt’altro!).
Non ha risparmiato critiche ai suoi educatori, ai preti, alla chiesa, ma uno che critica non vuol forse bene all’oggetto che critica? Se uno critica la chiesa mica vuol dire che la odia? Don Bellina è ancora dentro alla chiesa, ne fa parte in maniera coinvolgente. E’ parroco di una comunità minuscola, ma importante e se si mette a criticare il suo datore di lavoro lo fa , a mio avviso, perché gli vuole bene! Quindi da dove questa insolita censura?
Le sue critiche propositive, schiette, incisive, sono state ignorate, boicottate, combattute, come provenienti da un pulpito screditato e soprattutto senza potere.
In questo libro, scomparso, racconta, senza dimenticare alcun particolare, che cosa si mangiava in seminario, tutti i giovedì di ogni anno, anzi di tutti i tredici anni ( gli anni trascorsi in fabbrica), come predicava don Lovo, ossessionato da san Luigi e la sua castità inconfutabile, descrive la spirituale saggezza di monsignor Peressutti, la perfida intelligenza del prof. Negus che infieriva sui deboli e tanti altri momenti di vita vissuta a quei tempi da innumerevoli giovani. Pensate che in quegli anni, dal 1950al 1960, i giovani andavano in seminario a frotte: c’erano ben tre sezioni nelle medie con più di cento alunni!
Don Bellina descrive con minuziosa precisione particolari che hanno coinvolto, come me, numerosi giovani che riuscivano, pur con qualche sacrificio, a studiare in un luogo protetto e senza molta spesa.
Nel raccontare assieme alla sua, la storia di tanti giovani passati nella “fabriche dai predis” don Bellina è spietato, perfino micidiale.
Non perdona nulla e si ricorda con puntigliosa memoria tutte le umiliazioni che quella congrega gli ha fatto ingoiare. Quello che ha rimuginato dentro in “ chei agns dal nestri calvari…in chel lûc di pocjs sodisfazions” è raccontato in un friulano semplice e comprensibile in un libro che non potrete più acquistare, tolto alla vostra conoscenza ed al vostro giudizio.
E’ vero o falso quello che don Bellina ci racconta?
Il “ seminari erial propit” una prigione? Anche se non ti tenevano legato?…
L’educazione ivi impartita da lunatici professori spesso disadattati, contribuiva a formare o a deformare pur che si entrasse “tal stamp clericâl?
Pure io sono passato in quella fabbrica, cui serbo nonostante tutto, un sentimento di gratitudine, perché mi ha dato cultura e sicurezza. Non capisco perché criticare una “scuola” debba meritare l’ostracismo? Perché non hanno scritto una testimonianza a controprova? Che so? “Il Seminario aiuola di santi?” o “Il Seminario esempio educativo”.
I ricordi possono fare male.
Pre Belline ha sicuramente fatto male, con il suo libro , a quei preti che tuttora non accettano di essere venuti fuori da una “fabbrica”, conformati secondo uno stampo unico. Accettare il proprio passato è difficile soprattutto per quelli che oggi sono diventati monsignori, arcidiaconi, vicari o vescovi, ma che cosa è importante ? Essere o apparire?
Quello che non mi sembra assolutamente cambiato è che se è vero che i preti sono diminuiti, non sono proprio cambiati certi metodi arbitrari e crudeli, inquisitori, attribuibili a chi ha deciso di togliere, con insindacabile giudizio, un libro che più che peggiorare ci avrebbe fatto riflettere.
Ma forse, loro, non vogliono farci riflettere. Così come non sono riusciti a riflettere ed a pensare che la chiesa avrebbe dovuto anticipare i tempi non a farsi superare da questi. Fra qualche decennio la chiesa assumerà forme nuove di testimonianza, ma a pagare saranno i pre Belline che, umilmente, dicendo la loro idea , incasseranno più di qualche sberla.
Come ultima conclusione mi viene da dire che se “la fabriche” è fallita i capi continuano , sotto antiche spoglie, a comandare. Anche il comunismo, crollato il muro di Berlino, avrebbe dovuto sparire, invece ce lo ritroviamo ad ogni occasione.
Per non uscire dal tema concludo meravigliandomi che gli intellettuali friulani abbiano speso ben poco , quasi nulla, qualche fievole voce, per protestare contro l’imposizione, ridicola e beffarda, che qualcuno si è arrogato di prendere quel libro e buttarlo nel cesso.
Non esito a definire “vergognoso, anacronistico, offensivo” quanto è successo a questo libro, quasi fossimo in regime cambogiano!
MARINO PLAZZOTTA
P:S: Di seguito una traduzione, non autorizzata dall’autore, delle prime pagine di questo libro che conserverò con cura.
Se volete sapere di più: gosper1@tin.it
La fabriche dai predis
di ANTONI BELINE
INTRODUZIONE
Anche se i cambiamenti radicali e generazionali stanno sconvolgendo sempre di più la nostra fisionomia culturale e religiosa, resta ancora vera l’affermazione di Benedetto Croce che “non possiamo non chiamarci cristiani”. Addirittura nel senso di cristiano-cattolico, che è una delle forme di essere cristiani. Perché la religione ci ha segnati tanto in profondità che si potrebbe parlare di una sorta di somatizzazione, di una modificazione organica.
Se questo vale per gli italiani, vale con più ragione per noi friulani, che siamo nati come popolo nel grembo di Aquileia e cresciuti attorno alla chiesa e all’ombra del campanile. Infatti uno dei difetti che tutti ci riconoscono, magari a torto, è quello di essere “campanilisti” e legati ognuno alla sua “parrocchia”. Che si può tradurre in selvatici, individualisti e asociali.
L’influenza del nostro background culturale-religioso cattolico è tanto in positivo che in negativo. Nel senso che, se anche andiamo sempre più raramente in chiesa o non andiamo proprio e siamo diventati neutri o contrari, ci sono rimaste le virtù e i difetti tipici di una società di stampo cattolico.
Per conoscere meglio la tipologia del friulano, base e premessa di ogni discorso sensato, sarà pertanto opportuno andare a vedere che sorta di religione ci ha formati e deformati. A differenza dei protestanti, che danno grande importanza alla coscienza e soprattutto alla Scrittura, senza mediazioni e intermediazioni di sorte, la nostra religione o religiosità è stata centrata sulla mediazione, quasi esclusiva, della gerarchia, in particolare del prete, che l’abbiamo sempre visto e considerato come il referente principale e obbligatorio nel nostro rapporto con la divinità. Non è un caso che il clericalismo e l’anticlericalismo siano ortiche che crescono solo nell’orto dei cattolici. Perché per noi la figura del prete, del parroco è stata determinante e discriminante, al punto che tanta gente va in chiesa e crede in Dio grazie a un prete santo e tanta gente non va in chiesa e non crede in niente per colpa di un prete testardo ed imbecille.
Arrivato ad una età in cui si può fare un minimo di bilancio e di riflessione e, trovandomi per combinazione nell’ambito clericale, mi è sembrato giusto studiare la figura, lo stampo, il modello del prete, per capire e spiegarmi la figura, lo stampo, il modello dei nostri cristiani. Perché i preti hanno avuto grandi meriti nella nostra storia personale e sociale, come hanno avuto grandi colpe. Arriverei a dire che non si può scrivere la storia del Friuli senza scrivere un grande capitolo sulla chiesa e sui preti. Sono stato contento di leggere che uno studioso di religioni americano, Antony D. Smith, ha trovato che in tutte le minoranze etniche e linguistiche il prete e la religione hanno una funzione insostituibile. Scappato il politico, sparito lo studiato, resta il prete, a prendersi debiti e crediti, a fare da papa e da re. Conoscere dunque i preti può diventare una chiave importante per aprire tante porte chiuse e per fare luce su tanti angoli oscuri.
Ma come conoscere i preti? Leggendo i documenti del Vaticano e della curia? Leggendo le vite dei santi, quasi tutti preti, frati e suore? Leggendo la tanta letteratura che in ogni secolo e in ogni parte del mondo è stata dedicata a loro? Andando ad interpellare la gente? Andando ad interpellare i diretti interessati? Tutte strade buone e percorribili, che possono dare qualche risultato illuminante.
Io ho preferito andare a studiare il posto, là, da dove vengono e, meglio, venivano fuori i preti, quando era grande abbondanza e si poteva permettersi anche di fare “gli americani”, i grandi e diradare senza stare troppo a trattare. Il posto si chiama “seminario”. E’ stato inventato e codificato nel 1500, e precisamente in quel Concilio Tridentino (1545-1563) organizzato per combattere i protestanti, che è durato e dura, nella sostanza, fino al giorno d’oggi. La parola viene chiaramente da “semente “, una sorte di vivaio per piantine che dovevano essere guardate dai venti del secolo e riscaldate con il calore della santità.
In quei tempi di miseria materiale, i seminari godevano di grande abbondanza numerica, al punto che la nostra gente, per dire che “ce n’era ‘una strage”, diceva ‘un seminario’. Cosa che sicuramente oggi stonerebbe. Però l’aspetto più caratteristico di questo posto di formazione clericale, che la retorica del tempo chiamava anche “santuario”, non era il numero degli eletti ma lo stampo di educazione. Uno stampo soprattutto negativo, immobile, ossessionato a far sparire l’uomo vero, l’uomo che diventa prete, per sostituirlo con l’uomo nuovo, il prete che non è più uomo.
Questa struttura è durata quattro secoli e ha mandato fuori centinaia, migliaia di preti, una stirpe per conto suo, tutta compatta, tutta uguale, tutta differente e alternativa alla gente normale. Che se in tempi di clericalizzazione e di sacralizzazione generalizzate poteva essere comprensibile e addirittura accettabile, oggi è tremendamente, scandalosamente stonata, incomprensibile e soprattutto inaccettabile.
Queste pagine sono una visita in quel luogo e in quell’ambiente, fatta da uno che ha passato li dentro tredici anni e dunque può vantare qualche titolo. Le ho scritte per fare luce sull’anormalità del prete, per trovare una qualche ragione alla sua stravaganza rispetto alla gente normale. Per capire quello che gli hanno fatto per ridurlo così e dunque per trovare una qualche attenuante e, se è possibile, un po’ di comprensione, come si ha per tutte le vittime. Non è un lavoro contro i preti ma, contro la struttura che li ha ridotti così.
Ho scritto anche per dare una testimonianza alternativa a quella oleografica fornita dal mondo clericale, che sicuramente loda e dà risalto al suo prodotto nascondendo colpe e limiti. Queste testimonianze, apparentemente inutili, hanno il vantaggio di offrire una lettura diversa, contraria, inedita. Di modo che, un domani, se Dio vorrà, si potrà sentire un’altra campana, meno edificante e celebrativa ma non per quello meno vera. Una testimonianza personale, ma provata sulla mia pelle e dunque genuina.
Volevo mettere come titolo “memorie dall’oltretomba”. Poi mi era venuta la voglia di mettere “memorie di un sopravvissuto”, ma non arrivavo a trovare la parola giusta in friulano. Alla fine ho preferito un titolo più generico ma forse più incisivo e comprensibile: La fabriche dai predis - La fabbrica dei preti.
Una fabbrica che non ha saputo o potuto o voluto camminare con i tempi. Si è ostinata, prendendo come un punto di onore, a mandar fuori sempre quel prodotto, sempre più standardizzato, sempre più uguale, sempre più fuori dal tempo. Fino a che è arrivata la crisi o il momento del rendiconto.
Una prova del Signore, ha detto una persona! Un castigo di Dio! ha detto un’altra. Una buona occasione per cambiare sistema! dice ancora un’altra. Io, la mia idea la ho e ho avuto modo di dirla in più occasioni.
A quelli che si strappano la tonaca domandandosi come ha potuto franare in maniera così repentina, io rispondo che la domanda sarebbe, in caso, un’altra: “Come ha fatto a durare così tanto a lungo?”. Ma lasciamo stare considerazioni sicuramente importanti ma che non si possono sbrigare in quattro e quattr’otto. Occorre tempo, umiltà e soprattutto libertà. Entriamo assieme nella grande fabbrica silenziosa. Prima, però togliamo il cappello e fermiamoci un attimo a pregare per tanta manovalanza sacrificata e rovinata in tutti ‘questi’ anni e secoli. E, facendo uno sforzo, spendiamo un recuie anche per le maestranze. Forse anche loro vittime di un sistema che uccideva l’uomo illudendosi di onorare quel Dio che l’aveva creato come coronamento del creato a sua immagine e somiglianza.
IL SOGNO DI UNA MADRE
Santità nella culla
Siccome i santi sono persone straordinarie rispetto alla normalità, come stelle che luccicano in un cielo tutto grigio, è evidente che anche la loro vita è differente di quella della “massa damnatorum” della “folla dei dannati” che saremmo noi. La differenza di base è la loro vita interiore, il loro grado di grazia, la santità delle loro anima, ma questo è troppo poco per i nostri occhi curiosi e allora bisogna che la straordinarietà di palesi anche dal di fuori. E non solo in morte o dopo morti, ma anche in vita.. L’ideale sarebbe che tutta la vita fosse fuori dalla nostra ordinarietà, che Dio palesasse la loro grandezza fin dai primi anni, per non trovare in loro ombra di normalità. I migliori sono segnati dal momento della nascita o addirittura prima.
Mi ricordi di aver letto, negli anni della mia formazione, un miscuglio di vite di santi ed agiografie, una più edificante di quell’altra, in cui Dio sfogava tutta la sua fantasia per sottolineare la santità dei suoi servitori. Bambini che nascevano con una piccola croce in mano, bambine alle quali uscivano di bocca delle api, culle da cui si sentivano canti mai sentiti, case che si illuminavano come se avessero preso fuoco e la gente correva spasimando coi i secchi e trovava un ragazzino bello come un angelo. Ci sono stati santi che, nei giorni di astinenza, vuoi il mercoledì o il venerdì, non volevano succhiare il latte materno e altri che hanno incominciato a parlare appena usciti dal grembo della madre.
Non mancano naturalmente i sogni e le premonizioni, strada consueta che Dio adopera anche nella Bibbia per avvertire degli esempi che sta preparando.
Ebbene, se invece di essere un beato prete, grande peccatore e eretico, fossi stato un san Giovanni Bosco, o un altro santo, anche nella mia vita avrebbero trovato qualcosa di straordinario. Per esempio il sogno di una madre.
Un piccolo prete avanti alla Madonna
Sono nato l’11 febbraio del 1941. In quel giorno la chiesa ricorda l’apparizione della Madonna di Lourdes a santa Bernardette. Può esistere un santo che non sia nato o morto in una giornata dedicata alla Madonna? Se deve tener conto che, a differenza della gente normale che vive in una quotidiana casualità, per le anime elette non esiste casualità e tutto ha un significato, compresi i giorni del calendario.
Quando stavo per nascere, mia madre si è sognata che, davanti all’altare della Madonna, c’era un bambino vestito da prete, con la piccola tonaca nera e la cotta bianca, tutto intento a guardare la Madonna e a pregare. Quella volta non si sapeva, come adesso, se nasceva bambino o bambina, e io non ero l’unico maschio della famiglia, avendo un fratello più grande di me e uno più piccolo. Mia madre non ha fatto nessun sogno con nessuno degli altri e dunque si può dire con relativa sicurezza che quel piccolo prete ero io.
di Marino Plazzotta
la fabriche dai predis
Nella società in cui viviamo dobbiamo abituarci a tutto, dalla mucca pazza, all’uranio impoverito, al plutonio, alle pasticche di extasy, al commercio di ogni cosa , dai bimbi agli organi umani. Insomma ci dobbiamo abituare a vederne o sentirne di tutti i colori! Ma mai mi sarei aspettato, nel 2000, di constatare la sparizione dalle librerie di un un libro che aveva appena “visto la luce”, ancora intonso.
Mi riferisco al “ LA FABRICHE DAI PREDIS” scritto da Don Antonio Bellina e che improvvisamente per decisione di non so qual fantomatico “ Sant’Uffizio” è stato tolto dalla circolazione.
Senza grande scalpore o proteste si è ripetuta l’operazione che Ray Bradbury descrive in “Fahrenheit 451” , dove il corpo dei pompieri è impiegato a distruggere tutti i libri considerati fuori legge.
Anche a Udine, a distanza di secoli, si è ripresentato un severo Torquemada che , non si sa bene con quale diritto, né con quali poteri è riuscito , “senza il rumore della litigiosità” , ad eliminare un libro che non potrà nemmeno essere segnalato nell’ “Index Librorum Prohibitorum” di triste memoria.
Il libro di don Antonio Bellina è letteralmente scomparso.
Della sparizione mi sono accorto per caso, quando, dopo aver acquistato regolarmente la copia che ho sotto gli occhi, mi sono recato in libreria per acquistarne una da regalare ad un amico. “Il libro non si trova più in commercio” , mi ha risposto il libraio.
Ho fatto qualche indagine ed ho scoperto che per decisione di un Sinedrio diocesano il libro non poteva essere più di pubblica consultazione e non solo veniva messo all’indice, ormai soppresso, ma fatto sparire per il bene di tutti. La mia prima reazione è stata di incredulità: non mi sembrava possibile che nell’anno giubilare, con un papa che chiede perdono a tutti, perfino della santa Inquisizione, si arrivasse in una provincia, nemmeno tanto religiosa, ad eliminare un bellissimo libro autobiografico!
E’ successo.
E sono qui a raccontarvi quello che ho scoperto in questa sofferta storia che mi ha fatto apprezzare ancora di più il mio Sciorsantul, che nonostante tutto, è riuscito a salvarsi con dignità e umanità, da una scuola che si prefiggeva di sfornare preti tutti uguali, tutti fieri, tutti pieni di sé e potenti. Il mio Sciorsantul si è salvato, perché dentro di sé ha trovato dei valori che nessun docente è riuscito ad eliminare. Ha ritrovata un’anima in cui vivevano suo padre e sua madre, e tutti gli avi che se ne sono andati non senza lasciare una forte , determinante impronta. Senza questo passato anche il mio Sciorsantul sarebbe diventato un prodotto confezionato e impacchettato dalla “fabriche” e comandato e dislocato a piacere sulla scacchiera della diocesi.
Don Antonio Bellina è un prete scomodo, perché dice il vero e lo sa scrivere bene. E scrive tanto.
Ha portato a termine la traduzione della Bibbia in Friulano, iniziata con un altro prete scomodo, Don Placereani.
Come Isaac Singer, premio nobel per la letteratura, che ha scritto sempre e solo in yiddish, idioma delle comunità ebraiche orientali, Don Bellina ha scritto e scrive rigorosamente solo in friulano. Questo è il bello e il brutto di una mente e di un uomo eccezionale per i sentimenti, le emozioni, le convinzioni, che riesce a comunicare: il friulano come limite , non come prerogativa, come strumento comunicativo!
E’ un prete non etichettabile, genericamente o facilmente, nella classe clericale , ma è comunque un uomo in pace con se stesso.
E’ stato ed è una voce fuori dal coro , già da quando vent’anni fa scriveva : “La veretât e jè che che il gleseam al copie dutis lis pecjis dal stât…E come il stât al bandone i paîs plui picui e al siere scuelis e nol dà un avignî e nissune comuditât di sorte…cussi la glesie. Là che no coventin predis and’è di vendi, la che a coventin no s’incjate”, ma il modo con cui è stato trattato questo ultimo suo libro, la dice lunga su come la chiesa testimoni ed interpreti la tolleranza. (Probabilmente la chiesa quando dice “mea culpa”, intende tutt’altro!).
Non ha risparmiato critiche ai suoi educatori, ai preti, alla chiesa, ma uno che critica non vuol forse bene all’oggetto che critica? Se uno critica la chiesa mica vuol dire che la odia? Don Bellina è ancora dentro alla chiesa, ne fa parte in maniera coinvolgente. E’ parroco di una comunità minuscola, ma importante e se si mette a criticare il suo datore di lavoro lo fa , a mio avviso, perché gli vuole bene! Quindi da dove questa insolita censura?
Le sue critiche propositive, schiette, incisive, sono state ignorate, boicottate, combattute, come provenienti da un pulpito screditato e soprattutto senza potere.
In questo libro, scomparso, racconta, senza dimenticare alcun particolare, che cosa si mangiava in seminario, tutti i giovedì di ogni anno, anzi di tutti i tredici anni ( gli anni trascorsi in fabbrica), come predicava don Lovo, ossessionato da san Luigi e la sua castità inconfutabile, descrive la spirituale saggezza di monsignor Peressutti, la perfida intelligenza del prof. Negus che infieriva sui deboli e tanti altri momenti di vita vissuta a quei tempi da innumerevoli giovani. Pensate che in quegli anni, dal 1950al 1960, i giovani andavano in seminario a frotte: c’erano ben tre sezioni nelle medie con più di cento alunni!
Don Bellina descrive con minuziosa precisione particolari che hanno coinvolto, come me, numerosi giovani che riuscivano, pur con qualche sacrificio, a studiare in un luogo protetto e senza molta spesa.
Nel raccontare assieme alla sua, la storia di tanti giovani passati nella “fabriche dai predis” don Bellina è spietato, perfino micidiale.
Non perdona nulla e si ricorda con puntigliosa memoria tutte le umiliazioni che quella congrega gli ha fatto ingoiare. Quello che ha rimuginato dentro in “ chei agns dal nestri calvari…in chel lûc di pocjs sodisfazions” è raccontato in un friulano semplice e comprensibile in un libro che non potrete più acquistare, tolto alla vostra conoscenza ed al vostro giudizio.
E’ vero o falso quello che don Bellina ci racconta?
Il “ seminari erial propit” una prigione? Anche se non ti tenevano legato?…
L’educazione ivi impartita da lunatici professori spesso disadattati, contribuiva a formare o a deformare pur che si entrasse “tal stamp clericâl?
Pure io sono passato in quella fabbrica, cui serbo nonostante tutto, un sentimento di gratitudine, perché mi ha dato cultura e sicurezza. Non capisco perché criticare una “scuola” debba meritare l’ostracismo? Perché non hanno scritto una testimonianza a controprova? Che so? “Il Seminario aiuola di santi?” o “Il Seminario esempio educativo”.
I ricordi possono fare male.
Pre Belline ha sicuramente fatto male, con il suo libro , a quei preti che tuttora non accettano di essere venuti fuori da una “fabbrica”, conformati secondo uno stampo unico. Accettare il proprio passato è difficile soprattutto per quelli che oggi sono diventati monsignori, arcidiaconi, vicari o vescovi, ma che cosa è importante ? Essere o apparire?
Quello che non mi sembra assolutamente cambiato è che se è vero che i preti sono diminuiti, non sono proprio cambiati certi metodi arbitrari e crudeli, inquisitori, attribuibili a chi ha deciso di togliere, con insindacabile giudizio, un libro che più che peggiorare ci avrebbe fatto riflettere.
Ma forse, loro, non vogliono farci riflettere. Così come non sono riusciti a riflettere ed a pensare che la chiesa avrebbe dovuto anticipare i tempi non a farsi superare da questi. Fra qualche decennio la chiesa assumerà forme nuove di testimonianza, ma a pagare saranno i pre Belline che, umilmente, dicendo la loro idea , incasseranno più di qualche sberla.
Come ultima conclusione mi viene da dire che se “la fabriche” è fallita i capi continuano , sotto antiche spoglie, a comandare. Anche il comunismo, crollato il muro di Berlino, avrebbe dovuto sparire, invece ce lo ritroviamo ad ogni occasione.
Per non uscire dal tema concludo meravigliandomi che gli intellettuali friulani abbiano speso ben poco , quasi nulla, qualche fievole voce, per protestare contro l’imposizione, ridicola e beffarda, che qualcuno si è arrogato di prendere quel libro e buttarlo nel cesso.
Non esito a definire “vergognoso, anacronistico, offensivo” quanto è successo a questo libro, quasi fossimo in regime cambogiano!
MARINO PLAZZOTTA
P:S: Di seguito una traduzione, non autorizzata dall’autore, delle prime pagine di questo libro che conserverò con cura.
Se volete sapere di più: gosper1@tin.it
La fabriche dai predis
di ANTONI BELINE
INTRODUZIONE
Anche se i cambiamenti radicali e generazionali stanno sconvolgendo sempre di più la nostra fisionomia culturale e religiosa, resta ancora vera l’affermazione di Benedetto Croce che “non possiamo non chiamarci cristiani”. Addirittura nel senso di cristiano-cattolico, che è una delle forme di essere cristiani. Perché la religione ci ha segnati tanto in profondità che si potrebbe parlare di una sorta di somatizzazione, di una modificazione organica.
Se questo vale per gli italiani, vale con più ragione per noi friulani, che siamo nati come popolo nel grembo di Aquileia e cresciuti attorno alla chiesa e all’ombra del campanile. Infatti uno dei difetti che tutti ci riconoscono, magari a torto, è quello di essere “campanilisti” e legati ognuno alla sua “parrocchia”. Che si può tradurre in selvatici, individualisti e asociali.
L’influenza del nostro background culturale-religioso cattolico è tanto in positivo che in negativo. Nel senso che, se anche andiamo sempre più raramente in chiesa o non andiamo proprio e siamo diventati neutri o contrari, ci sono rimaste le virtù e i difetti tipici di una società di stampo cattolico.
Per conoscere meglio la tipologia del friulano, base e premessa di ogni discorso sensato, sarà pertanto opportuno andare a vedere che sorta di religione ci ha formati e deformati. A differenza dei protestanti, che danno grande importanza alla coscienza e soprattutto alla Scrittura, senza mediazioni e intermediazioni di sorte, la nostra religione o religiosità è stata centrata sulla mediazione, quasi esclusiva, della gerarchia, in particolare del prete, che l’abbiamo sempre visto e considerato come il referente principale e obbligatorio nel nostro rapporto con la divinità. Non è un caso che il clericalismo e l’anticlericalismo siano ortiche che crescono solo nell’orto dei cattolici. Perché per noi la figura del prete, del parroco è stata determinante e discriminante, al punto che tanta gente va in chiesa e crede in Dio grazie a un prete santo e tanta gente non va in chiesa e non crede in niente per colpa di un prete testardo ed imbecille.
Arrivato ad una età in cui si può fare un minimo di bilancio e di riflessione e, trovandomi per combinazione nell’ambito clericale, mi è sembrato giusto studiare la figura, lo stampo, il modello del prete, per capire e spiegarmi la figura, lo stampo, il modello dei nostri cristiani. Perché i preti hanno avuto grandi meriti nella nostra storia personale e sociale, come hanno avuto grandi colpe. Arriverei a dire che non si può scrivere la storia del Friuli senza scrivere un grande capitolo sulla chiesa e sui preti. Sono stato contento di leggere che uno studioso di religioni americano, Antony D. Smith, ha trovato che in tutte le minoranze etniche e linguistiche il prete e la religione hanno una funzione insostituibile. Scappato il politico, sparito lo studiato, resta il prete, a prendersi debiti e crediti, a fare da papa e da re. Conoscere dunque i preti può diventare una chiave importante per aprire tante porte chiuse e per fare luce su tanti angoli oscuri.
Ma come conoscere i preti? Leggendo i documenti del Vaticano e della curia? Leggendo le vite dei santi, quasi tutti preti, frati e suore? Leggendo la tanta letteratura che in ogni secolo e in ogni parte del mondo è stata dedicata a loro? Andando ad interpellare la gente? Andando ad interpellare i diretti interessati? Tutte strade buone e percorribili, che possono dare qualche risultato illuminante.
Io ho preferito andare a studiare il posto, là, da dove vengono e, meglio, venivano fuori i preti, quando era grande abbondanza e si poteva permettersi anche di fare “gli americani”, i grandi e diradare senza stare troppo a trattare. Il posto si chiama “seminario”. E’ stato inventato e codificato nel 1500, e precisamente in quel Concilio Tridentino (1545-1563) organizzato per combattere i protestanti, che è durato e dura, nella sostanza, fino al giorno d’oggi. La parola viene chiaramente da “semente “, una sorte di vivaio per piantine che dovevano essere guardate dai venti del secolo e riscaldate con il calore della santità.
In quei tempi di miseria materiale, i seminari godevano di grande abbondanza numerica, al punto che la nostra gente, per dire che “ce n’era ‘una strage”, diceva ‘un seminario’. Cosa che sicuramente oggi stonerebbe. Però l’aspetto più caratteristico di questo posto di formazione clericale, che la retorica del tempo chiamava anche “santuario”, non era il numero degli eletti ma lo stampo di educazione. Uno stampo soprattutto negativo, immobile, ossessionato a far sparire l’uomo vero, l’uomo che diventa prete, per sostituirlo con l’uomo nuovo, il prete che non è più uomo.
Questa struttura è durata quattro secoli e ha mandato fuori centinaia, migliaia di preti, una stirpe per conto suo, tutta compatta, tutta uguale, tutta differente e alternativa alla gente normale. Che se in tempi di clericalizzazione e di sacralizzazione generalizzate poteva essere comprensibile e addirittura accettabile, oggi è tremendamente, scandalosamente stonata, incomprensibile e soprattutto inaccettabile.
Queste pagine sono una visita in quel luogo e in quell’ambiente, fatta da uno che ha passato li dentro tredici anni e dunque può vantare qualche titolo. Le ho scritte per fare luce sull’anormalità del prete, per trovare una qualche ragione alla sua stravaganza rispetto alla gente normale. Per capire quello che gli hanno fatto per ridurlo così e dunque per trovare una qualche attenuante e, se è possibile, un po’ di comprensione, come si ha per tutte le vittime. Non è un lavoro contro i preti ma, contro la struttura che li ha ridotti così.
Ho scritto anche per dare una testimonianza alternativa a quella oleografica fornita dal mondo clericale, che sicuramente loda e dà risalto al suo prodotto nascondendo colpe e limiti. Queste testimonianze, apparentemente inutili, hanno il vantaggio di offrire una lettura diversa, contraria, inedita. Di modo che, un domani, se Dio vorrà, si potrà sentire un’altra campana, meno edificante e celebrativa ma non per quello meno vera. Una testimonianza personale, ma provata sulla mia pelle e dunque genuina.
Volevo mettere come titolo “memorie dall’oltretomba”. Poi mi era venuta la voglia di mettere “memorie di un sopravvissuto”, ma non arrivavo a trovare la parola giusta in friulano. Alla fine ho preferito un titolo più generico ma forse più incisivo e comprensibile: La fabriche dai predis - La fabbrica dei preti.
Una fabbrica che non ha saputo o potuto o voluto camminare con i tempi. Si è ostinata, prendendo come un punto di onore, a mandar fuori sempre quel prodotto, sempre più standardizzato, sempre più uguale, sempre più fuori dal tempo. Fino a che è arrivata la crisi o il momento del rendiconto.
Una prova del Signore, ha detto una persona! Un castigo di Dio! ha detto un’altra. Una buona occasione per cambiare sistema! dice ancora un’altra. Io, la mia idea la ho e ho avuto modo di dirla in più occasioni.
A quelli che si strappano la tonaca domandandosi come ha potuto franare in maniera così repentina, io rispondo che la domanda sarebbe, in caso, un’altra: “Come ha fatto a durare così tanto a lungo?”. Ma lasciamo stare considerazioni sicuramente importanti ma che non si possono sbrigare in quattro e quattr’otto. Occorre tempo, umiltà e soprattutto libertà. Entriamo assieme nella grande fabbrica silenziosa. Prima, però togliamo il cappello e fermiamoci un attimo a pregare per tanta manovalanza sacrificata e rovinata in tutti ‘questi’ anni e secoli. E, facendo uno sforzo, spendiamo un recuie anche per le maestranze. Forse anche loro vittime di un sistema che uccideva l’uomo illudendosi di onorare quel Dio che l’aveva creato come coronamento del creato a sua immagine e somiglianza.
IL SOGNO DI UNA MADRE
Santità nella culla
Siccome i santi sono persone straordinarie rispetto alla normalità, come stelle che luccicano in un cielo tutto grigio, è evidente che anche la loro vita è differente di quella della “massa damnatorum” della “folla dei dannati” che saremmo noi. La differenza di base è la loro vita interiore, il loro grado di grazia, la santità delle loro anima, ma questo è troppo poco per i nostri occhi curiosi e allora bisogna che la straordinarietà di palesi anche dal di fuori. E non solo in morte o dopo morti, ma anche in vita.. L’ideale sarebbe che tutta la vita fosse fuori dalla nostra ordinarietà, che Dio palesasse la loro grandezza fin dai primi anni, per non trovare in loro ombra di normalità. I migliori sono segnati dal momento della nascita o addirittura prima.
Mi ricordi di aver letto, negli anni della mia formazione, un miscuglio di vite di santi ed agiografie, una più edificante di quell’altra, in cui Dio sfogava tutta la sua fantasia per sottolineare la santità dei suoi servitori. Bambini che nascevano con una piccola croce in mano, bambine alle quali uscivano di bocca delle api, culle da cui si sentivano canti mai sentiti, case che si illuminavano come se avessero preso fuoco e la gente correva spasimando coi i secchi e trovava un ragazzino bello come un angelo. Ci sono stati santi che, nei giorni di astinenza, vuoi il mercoledì o il venerdì, non volevano succhiare il latte materno e altri che hanno incominciato a parlare appena usciti dal grembo della madre.
Non mancano naturalmente i sogni e le premonizioni, strada consueta che Dio adopera anche nella Bibbia per avvertire degli esempi che sta preparando.
Ebbene, se invece di essere un beato prete, grande peccatore e eretico, fossi stato un san Giovanni Bosco, o un altro santo, anche nella mia vita avrebbero trovato qualcosa di straordinario. Per esempio il sogno di una madre.
Un piccolo prete avanti alla Madonna
Sono nato l’11 febbraio del 1941. In quel giorno la chiesa ricorda l’apparizione della Madonna di Lourdes a santa Bernardette. Può esistere un santo che non sia nato o morto in una giornata dedicata alla Madonna? Se deve tener conto che, a differenza della gente normale che vive in una quotidiana casualità, per le anime elette non esiste casualità e tutto ha un significato, compresi i giorni del calendario.
Quando stavo per nascere, mia madre si è sognata che, davanti all’altare della Madonna, c’era un bambino vestito da prete, con la piccola tonaca nera e la cotta bianca, tutto intento a guardare la Madonna e a pregare. Quella volta non si sapeva, come adesso, se nasceva bambino o bambina, e io non ero l’unico maschio della famiglia, avendo un fratello più grande di me e uno più piccolo. Mia madre non ha fatto nessun sogno con nessuno degli altri e dunque si può dire con relativa sicurezza che quel piccolo prete ero io.
LA SCOMPARSA DI UN LIBRO
di Marino Plazzotta
la fabriche daipredis
Nella società in cui viviamo dobbiamo abituarci a tutto, dalla mucca pazza, all’uranio impoverito, al plutonio, alle pasticche di extasy, al commercio di ogni cosa , dai bimbi agli organi umani. Insomma ci dobbiamo abituare a vederne o sentirne di tutti i colori! Ma mai mi sarei aspettato, nel 2000, di constatare la sparizione dalle librerie di un un libro che aveva appena “visto la luce”, ancora intonso.
Mi riferisco al “ LA FABRICHE DAI PREDIS” scritto da Don Antonio Bellina e che improvvisamente per decisione di non so qual fantomatico “ Sant’Uffizio” è stato tolto dalla circolazione.
Senza grande scalpore o proteste si è ripetuta l’operazione che Ray Bradbury descrive in “Fahrenheit 451” , dove il corpo dei pompieri è impiegato a distruggere tutti i libri considerati fuori legge.
Anche a Udine, a distanza di secoli, si è ripresentato un severo Torquemada che , non si sa bene con quale diritto, né con quali poteri è riuscito , “senza il rumore della litigiosità” , ad eliminare un libro che non potrà nemmeno essere segnalato nell’ “Index Librorum Prohibitorum” di triste memoria.
Il libro di don Antonio Bellina è letteralmente scomparso.
Della sparizione mi sono accorto per caso, quando, dopo aver acquistato regolarmente la copia che ho sotto gli occhi, mi sono recato in libreria per acquistarne una da regalare ad un amico. “Il libro non si trova più in commercio” , mi ha risposto il libraio.
Ho fatto qualche indagine ed ho scoperto che per decisione di un Sinedrio diocesano il libro non poteva essere più di pubblica consultazione e non solo veniva messo all’indice, ormai soppresso, ma fatto sparire per il bene di tutti. La mia prima reazione è stata di incredulità: non mi sembrava possibile che nell’anno giubilare, con un papa che chiede perdono a tutti, perfino della santa Inquisizione, si arrivasse in una provincia, nemmeno tanto religiosa, ad eliminare un bellissimo libro autobiografico!
E’ successo.
E sono qui a raccontarvi quello che ho scoperto in questa sofferta storia che mi ha fatto apprezzare ancora di più il mio Sciorsantul, che nonostante tutto, è riuscito a salvarsi con dignità e umanità, da una scuola che si prefiggeva di sfornare preti tutti uguali, tutti fieri, tutti pieni di sé e potenti. Il mio Sciorsantul si è salvato, perché dentro di sé ha trovato dei valori che nessun docente è riuscito ad eliminare. Ha ritrovata un’anima in cui vivevano suo padre e sua madre, e tutti gli avi che se ne sono andati non senza lasciare una forte , determinante impronta. Senza questo passato anche il mio Sciorsantul sarebbe diventato un prodotto confezionato e impacchettato dalla “fabriche” e comandato e dislocato a piacere sulla scacchiera della diocesi.
Don Antonio Bellina è un prete scomodo, perché dice il vero e lo sa scrivere bene. E scrive tanto.
Ha portato a termine la traduzione della Bibbia in Friulano, iniziata con un altro prete scomodo, Don Placereani.
Come Isaac Singer, premio nobel per la letteratura, che ha scritto sempre e solo in yiddish, idioma delle comunità ebraiche orientali, Don Bellina ha scritto e scrive rigorosamente solo in friulano. Questo è il bello e il brutto di una mente e di un uomo eccezionale per i sentimenti, le emozioni, le convinzioni, che riesce a comunicare: il friulano come limite , non come prerogativa, come strumento comunicativo!
E’ un prete non etichettabile, genericamente o facilmente, nella classe clericale , ma è comunque un uomo in pace con se stesso.
E’ stato ed è una voce fuori dal coro , già da quando vent’anni fa scriveva : “La veretât e jè che che il gleseam al copie dutis lis pecjis dal stât…E come il stât al bandone i paîs plui picui e al siere scuelis e nol dà un avignî e nissune comuditât di sorte…cussi la glesie. Là che no coventin predis and’è di vendi, la che a coventin no s’incjate”, ma il modo con cui è stato trattato questo ultimo suo libro, la dice lunga su come la chiesa testimoni ed interpreti la tolleranza. (Probabilmente la chiesa quando dice “mea culpa”, intende tutt’altro!).
Non ha risparmiato critiche ai suoi educatori, ai preti, alla chiesa, ma uno che critica non vuol forse bene all’oggetto che critica? Se uno critica la chiesa mica vuol dire che la odia? Don Bellina è ancora dentro alla chiesa, ne fa parte in maniera coinvolgente. E’ parroco di una comunità minuscola, ma importante e se si mette a criticare il suo datore di lavoro lo fa , a mio avviso, perché gli vuole bene! Quindi da dove questa insolita censura?
Le sue critiche propositive, schiette, incisive, sono state ignorate, boicottate, combattute, come provenienti da un pulpito screditato e soprattutto senza potere.
In questo libro, scomparso, racconta, senza dimenticare alcun particolare, che cosa si mangiava in seminario, tutti i giovedì di ogni anno, anzi di tutti i tredici anni ( gli anni trascorsi in fabbrica), come predicava don Lovo, ossessionato da san Luigi e la sua castità inconfutabile, descrive la spirituale saggezza di monsignor Peressutti, la perfida intelligenza del prof. Negus che infieriva sui deboli e tanti altri momenti di vita vissuta a quei tempi da innumerevoli giovani. Pensate che in quegli anni, dal 1950al 1960, i giovani andavano in seminario a frotte: c’erano ben tre sezioni nelle medie con più di cento alunni!
Don Bellina descrive con minuziosa precisione particolari che hanno coinvolto, come me, numerosi giovani che riuscivano, pur con qualche sacrificio, a studiare in un luogo protetto e senza molta spesa.
Nel raccontare assieme alla sua, la storia di tanti giovani passati nella “fabriche dai predis” don Bellina è spietato, perfino micidiale.
Non perdona nulla e si ricorda con puntigliosa memoria tutte le umiliazioni che quella congrega gli ha fatto ingoiare. Quello che ha rimuginato dentro in “ chei agns dal nestri calvari…in chel lûc di pocjs sodisfazions” è raccontato in un friulano semplice e comprensibile in un libro che non potrete più acquistare, tolto alla vostra conoscenza ed al vostro giudizio.
E’ vero o falso quello che don Bellina ci racconta?
Il “ seminari erial propit” una prigione? Anche se non ti tenevano legato?…
L’educazione ivi impartita da lunatici professori spesso disadattati, contribuiva a formare o a deformare pur che si entrasse “tal stamp clericâl?
Pure io sono passato in quella fabbrica, cui serbo nonostante tutto, un sentimento di gratitudine, perché mi ha dato cultura e sicurezza. Non capisco perché criticare una “scuola” debba meritare l’ostracismo? Perché non hanno scritto una testimonianza a controprova? Che so? “Il Seminario aiuola di santi?” o “Il Seminario esempio educativo”.
I ricordi possono fare male.
Pre Belline ha sicuramente fatto male, con il suo libro , a quei preti che tuttora non accettano di essere venuti fuori da una “fabbrica”, conformati secondo uno stampo unico. Accettare il proprio passato è difficile soprattutto per quelli che oggi sono diventati monsignori, arcidiaconi, vicari o vescovi, ma che cosa è importante ? Essere o apparire?
Quello che non mi sembra assolutamente cambiato è che se è vero che i preti sono diminuiti, non sono proprio cambiati certi metodi arbitrari e crudeli, inquisitori, attribuibili a chi ha deciso di togliere, con insindacabile giudizio, un libro che più che peggiorare ci avrebbe fatto riflettere.
Ma forse, loro, non vogliono farci riflettere. Così come non sono riusciti a riflettere ed a pensare che la chiesa avrebbe dovuto anticipare i tempi non a farsi superare da questi. Fra qualche decennio la chiesa assumerà forme nuove di testimonianza, ma a pagare saranno i pre Belline che, umilmente, dicendo la loro idea , incasseranno più di qualche sberla.
Come ultima conclusione mi viene da dire che se “la fabriche” è fallita i capi continuano , sotto antiche spoglie, a comandare. Anche il comunismo, crollato il muro di Berlino, avrebbe dovuto sparire, invece ce lo ritroviamo ad ogni occasione.
Per non uscire dal tema concludo meravigliandomi che gli intellettuali friulani abbiano speso ben poco , quasi nulla, qualche fievole voce, per protestare contro l’imposizione, ridicola e beffarda, che qualcuno si è arrogato di prendere quel libro e buttarlo nel cesso.
Non esito a definire “vergognoso, anacronistico, offensivo” quanto è successo a questo libro, quasi fossimo in regime cambogiano!
MARINO PLAZZOTTA
P:S: Di seguito una traduzione, non autorizzata dall’autore, delle prime pagine di questo libro che conserverò con cura.
Se volete sapere di più cliccate qui gosper1@tin.it
La fabriche dai predis
di ANTONI BELINE
INTRODUZIONE
Anche se i cambiamenti radicali e generazionali stanno sconvolgendo sempre di più la nostra fisionomia culturale e religiosa, resta ancora vera l’affermazione di Benedetto Croce che “non possiamo non chiamarci cristiani”. Addirittura nel senso di cristiano-cattolico, che è una delle forme di essere cristiani. Perché la religione ci ha segnati tanto in profondità che si potrebbe parlare di una sorta di somatizzazione, di una modificazione organica.
Se questo vale per gli italiani, vale con più ragione per noi friulani, che siamo nati come popolo nel grembo di Aquileia e cresciuti attorno alla chiesa e all’ombra del campanile. Infatti uno dei difetti che tutti ci riconoscono, magari a torto, è quello di essere “campanilisti” e legati ognuno alla sua “parrocchia”. Che si può tradurre in selvatici, individualisti e asociali.
L’influenza del nostro background culturale-religioso cattolico è tanto in positivo che in negativo. Nel senso che, se anche andiamo sempre più raramente in chiesa o non andiamo proprio e siamo diventati neutri o contrari, ci sono rimaste le virtù e i difetti tipici di una società di stampo cattolico.
Per conoscere meglio la tipologia del friulano, base e premessa di ogni discorso sensato, sarà pertanto opportuno andare a vedere che sorta di religione ci ha formati e deformati. A differenza dei protestanti, che danno grande importanza alla coscienza e soprattutto alla Scrittura, senza mediazioni e intermediazioni di sorte, la nostra religione o religiosità è stata centrata sulla mediazione, quasi esclusiva, della gerarchia, in particolare del prete, che l’abbiamo sempre visto e considerato come il referente principale e obbligatorio nel nostro rapporto con la divinità. Non è un caso che il clericalismo e l’anticlericalismo siano ortiche che crescono solo nell’orto dei cattolici. Perché per noi la figura del prete, del parroco è stata determinante e discriminante, al punto che tanta gente va in chiesa e crede in Dio grazie a un prete santo e tanta gente non va in chiesa e non crede in niente per colpa di un prete testardo ed imbecille.
Arrivato ad una età in cui si può fare un minimo di bilancio e di riflessione e, trovandomi per combinazione nell’ambito clericale, mi è sembrato giusto studiare la figura, lo stampo, il modello del prete, per capire e spiegarmi la figura, lo stampo, il modello dei nostri cristiani. Perché i preti hanno avuto grandi meriti nella nostra storia personale e sociale, come hanno avuto grandi colpe. Arriverei a dire che non si può scrivere la storia del Friuli senza scrivere un grande capitolo sulla chiesa e sui preti. Sono stato contento di leggere che uno studioso di religioni americano, Antony D. Smith, ha trovato che in tutte le minoranze etniche e linguistiche il prete e la religione hanno una funzione insostituibile. Scappato il politico, sparito lo studiato, resta il prete, a prendersi debiti e crediti, a fare da papa e da re. Conoscere dunque i preti può diventare una chiave importante per aprire tante porte chiuse e per fare luce su tanti angoli oscuri.
Ma come conoscere i preti? Leggendo i documenti del Vaticano e della curia? Leggendo le vite dei santi, quasi tutti preti, frati e suore? Leggendo la tanta letteratura che in ogni secolo e in ogni parte del mondo è stata dedicata a loro? Andando ad interpellare la gente? Andando ad interpellare i diretti interessati? Tutte strade buone e percorribili, che possono dare qualche risultato illuminante.
Io ho preferito andare a studiare il posto, là, da dove vengono e, meglio, venivano fuori i preti, quando era grande abbondanza e si poteva permettersi anche di fare “gli americani”, i grandi e diradare senza stare troppo a trattare. Il posto si chiama “seminario”. E’ stato inventato e codificato nel 1500, e precisamente in quel Concilio Tridentino (1545-1563) organizzato per combattere i protestanti, che è durato e dura, nella sostanza, fino al giorno d’oggi. La parola viene chiaramente da “semente “, una sorte di vivaio per piantine che dovevano essere guardate dai venti del secolo e riscaldate con il calore della santità.
In quei tempi di miseria materiale, i seminari godevano di grande abbondanza numerica, al punto che la nostra gente, per dire che “ce n’era ‘una strage”, diceva ‘un seminario’. Cosa che sicuramente oggi stonerebbe. Però l’aspetto più caratteristico di questo posto di formazione clericale, che la retorica del tempo chiamava anche “santuario”, non era il numero degli eletti ma lo stampo di educazione. Uno stampo soprattutto negativo, immobile, ossessionato a far sparire l’uomo vero, l’uomo che diventa prete, per sostituirlo con l’uomo nuovo, il prete che non è più uomo.
Questa struttura è durata quattro secoli e ha mandato fuori centinaia, migliaia di preti, una stirpe per conto suo, tutta compatta, tutta uguale, tutta differente e alternativa alla gente normale. Che se in tempi di clericalizzazione e di sacralizzazione generalizzate poteva essere comprensibile e addirittura accettabile, oggi è tremendamente, scandalosamente stonata, incomprensibile e soprattutto inaccettabile.
Queste pagine sono una visita in quel luogo e in quell’ambiente, fatta da uno che ha passato li dentro tredici anni e dunque può vantare qualche titolo. Le ho scritte per fare luce sull’anormalità del prete, per trovare una qualche ragione alla sua stravaganza rispetto alla gente normale. Per capire quello che gli hanno fatto per ridurlo così e dunque per trovare una qualche attenuante e, se è possibile, un po’ di comprensione, come si ha per tutte le vittime. Non è un lavoro contro i preti ma, contro la struttura che li ha ridotti così.
Ho scritto anche per dare una testimonianza alternativa a quella oleografica fornita dal mondo clericale, che sicuramente loda e dà risalto al suo prodotto nascondendo colpe e limiti. Queste testimonianze, apparentemente inutili, hanno il vantaggio di offrire una lettura diversa, contraria, inedita. Di modo che, un domani, se Dio vorrà, si potrà sentire un’altra campana, meno edificante e celebrativa ma non per quello meno vera. Una testimonianza personale, ma provata sulla mia pelle e dunque genuina.
Volevo mettere come titolo “memorie dall’oltretomba”. Poi mi era venuta la voglia di mettere “memorie di un sopravvissuto”, ma non arrivavo a trovare la parola giusta in friulano. Alla fine ho preferito un titolo più generico ma forse più incisivo e comprensibile: La fabriche dai predis - La fabbrica dei preti.
Una fabbrica che non ha saputo o potuto o voluto camminare con i tempi. Si è ostinata, prendendo come un punto di onore, a mandar fuori sempre quel prodotto, sempre più standardizzato, sempre più uguale, sempre più fuori dal tempo. Fino a che è arrivata la crisi o il momento del rendiconto.
Una prova del Signore, ha detto una persona! Un castigo di Dio! ha detto un’altra. Una buona occasione per cambiare sistema! dice ancora un’altra. Io, la mia idea la ho e ho avuto modo di dirla in più occasioni.
A quelli che si strappano la tonaca domandandosi come ha potuto franare in maniera così repentina, io rispondo che la domanda sarebbe, in caso, un’altra: “Come ha fatto a durare così tanto a lungo?”. Ma lasciamo stare considerazioni sicuramente importanti ma che non si possono sbrigare in quattro e quattr’otto. Occorre tempo, umiltà e soprattutto libertà. Entriamo assieme nella grande fabbrica silenziosa. Prima, però togliamo il cappello e fermiamoci un attimo a pregare per tanta manovalanza sacrificata e rovinata in tutti ‘questi’ anni e secoli. E, facendo uno sforzo, spendiamo un recuie anche per le maestranze. Forse anche loro vittime di un sistema che uccideva l’uomo illudendosi di onorare quel Dio che l’aveva creato come coronamento del creato a sua immagine e somiglianza.
IL SOGNO DI UNA MADRE
Santità nella culla
Siccome i santi sono persone straordinarie rispetto alla normalità, come stelle che luccicano in un cielo tutto grigio, è evidente che anche la loro vita è differente di quella della “massa damnatorum” della “folla dei dannati” che saremmo noi. La differenza di base è la loro vita interiore, il loro grado di grazia, la santità delle loro anima, ma questo è troppo poco per i nostri occhi curiosi e allora bisogna che la straordinarietà di palesi anche dal di fuori. E non solo in morte o dopo morti, ma anche in vita.. L’ideale sarebbe che tutta la vita fosse fuori dalla nostra ordinarietà, che Dio palesasse la loro grandezza fin dai primi anni, per non trovare in loro ombra di normalità. I migliori sono segnati dal momento della nascita o addirittura prima.
Mi ricordi di aver letto, negli anni della mia formazione, un miscuglio di vite di santi ed agiografie, una più edificante di quell’altra, in cui Dio sfogava tutta la sua fantasia per sottolineare la santità dei suoi servitori. Bambini che nascevano con una piccola croce in mano, bambine alle quali uscivano di bocca delle api, culle da cui si sentivano canti mai sentiti, case che si illuminavano come se avessero preso fuoco e la gente correva spasimando coi i secchi e trovava un ragazzino bello come un angelo. Ci sono stati santi che, nei giorni di astinenza, vuoi il mercoledì o il venerdì, non volevano succhiare il latte materno e altri che hanno incominciato a parlare appena usciti dal grembo della madre.
Non mancano naturalmente i sogni e le premonizioni, strada consueta che Dio adopera anche nella Bibbia per avvertire degli esempi che sta preparando.
Ebbene, se invece di essere un beato prete, grande peccatore e eretico, fossi stato un san Giovanni Bosco, o un altro santo, anche nella mia vita avrebbero trovato qualcosa di straordinario. Per esempio il sogno di una madre.
Un piccolo prete avanti alla Madonna
Sono nato l’11 febbraio del 1941. In quel giorno la chiesa ricorda l’apparizione della Madonna di Lourdes a santa Bernardette. Può esistere un santo che non sia nato o morto in una giornata dedicata alla Madonna? Se deve tener conto che, a differenza della gente normale che vive in una quotidiana casualità, per le anime elette non esiste casualità e tutto ha un significato, compresi i giorni del calendario.
Quando stavo per nascere, mia madre si è sognata che, davanti all’altare della Madonna, c’era un bambino vestito da prete, con la piccola tonaca nera e la cotta bianca, tutto intento a guardare la Madonna e a pregare. Quella volta non si sapeva, come adesso, se nasceva bambino o bambina, e io non ero l’unico maschio della famiglia, avendo un fratello più grande di me e uno più piccolo. Mia madre non ha fatto nessun sogno con nessuno degli altri e dunque si può dire con relativa sicurezza che quel piccolo prete ero io.
di Marino Plazzotta
la fabriche daipredis
Nella società in cui viviamo dobbiamo abituarci a tutto, dalla mucca pazza, all’uranio impoverito, al plutonio, alle pasticche di extasy, al commercio di ogni cosa , dai bimbi agli organi umani. Insomma ci dobbiamo abituare a vederne o sentirne di tutti i colori! Ma mai mi sarei aspettato, nel 2000, di constatare la sparizione dalle librerie di un un libro che aveva appena “visto la luce”, ancora intonso.
Mi riferisco al “ LA FABRICHE DAI PREDIS” scritto da Don Antonio Bellina e che improvvisamente per decisione di non so qual fantomatico “ Sant’Uffizio” è stato tolto dalla circolazione.
Senza grande scalpore o proteste si è ripetuta l’operazione che Ray Bradbury descrive in “Fahrenheit 451” , dove il corpo dei pompieri è impiegato a distruggere tutti i libri considerati fuori legge.
Anche a Udine, a distanza di secoli, si è ripresentato un severo Torquemada che , non si sa bene con quale diritto, né con quali poteri è riuscito , “senza il rumore della litigiosità” , ad eliminare un libro che non potrà nemmeno essere segnalato nell’ “Index Librorum Prohibitorum” di triste memoria.
Il libro di don Antonio Bellina è letteralmente scomparso.
Della sparizione mi sono accorto per caso, quando, dopo aver acquistato regolarmente la copia che ho sotto gli occhi, mi sono recato in libreria per acquistarne una da regalare ad un amico. “Il libro non si trova più in commercio” , mi ha risposto il libraio.
Ho fatto qualche indagine ed ho scoperto che per decisione di un Sinedrio diocesano il libro non poteva essere più di pubblica consultazione e non solo veniva messo all’indice, ormai soppresso, ma fatto sparire per il bene di tutti. La mia prima reazione è stata di incredulità: non mi sembrava possibile che nell’anno giubilare, con un papa che chiede perdono a tutti, perfino della santa Inquisizione, si arrivasse in una provincia, nemmeno tanto religiosa, ad eliminare un bellissimo libro autobiografico!
E’ successo.
E sono qui a raccontarvi quello che ho scoperto in questa sofferta storia che mi ha fatto apprezzare ancora di più il mio Sciorsantul, che nonostante tutto, è riuscito a salvarsi con dignità e umanità, da una scuola che si prefiggeva di sfornare preti tutti uguali, tutti fieri, tutti pieni di sé e potenti. Il mio Sciorsantul si è salvato, perché dentro di sé ha trovato dei valori che nessun docente è riuscito ad eliminare. Ha ritrovata un’anima in cui vivevano suo padre e sua madre, e tutti gli avi che se ne sono andati non senza lasciare una forte , determinante impronta. Senza questo passato anche il mio Sciorsantul sarebbe diventato un prodotto confezionato e impacchettato dalla “fabriche” e comandato e dislocato a piacere sulla scacchiera della diocesi.
Don Antonio Bellina è un prete scomodo, perché dice il vero e lo sa scrivere bene. E scrive tanto.
Ha portato a termine la traduzione della Bibbia in Friulano, iniziata con un altro prete scomodo, Don Placereani.
Come Isaac Singer, premio nobel per la letteratura, che ha scritto sempre e solo in yiddish, idioma delle comunità ebraiche orientali, Don Bellina ha scritto e scrive rigorosamente solo in friulano. Questo è il bello e il brutto di una mente e di un uomo eccezionale per i sentimenti, le emozioni, le convinzioni, che riesce a comunicare: il friulano come limite , non come prerogativa, come strumento comunicativo!
E’ un prete non etichettabile, genericamente o facilmente, nella classe clericale , ma è comunque un uomo in pace con se stesso.
E’ stato ed è una voce fuori dal coro , già da quando vent’anni fa scriveva : “La veretât e jè che che il gleseam al copie dutis lis pecjis dal stât…E come il stât al bandone i paîs plui picui e al siere scuelis e nol dà un avignî e nissune comuditât di sorte…cussi la glesie. Là che no coventin predis and’è di vendi, la che a coventin no s’incjate”, ma il modo con cui è stato trattato questo ultimo suo libro, la dice lunga su come la chiesa testimoni ed interpreti la tolleranza. (Probabilmente la chiesa quando dice “mea culpa”, intende tutt’altro!).
Non ha risparmiato critiche ai suoi educatori, ai preti, alla chiesa, ma uno che critica non vuol forse bene all’oggetto che critica? Se uno critica la chiesa mica vuol dire che la odia? Don Bellina è ancora dentro alla chiesa, ne fa parte in maniera coinvolgente. E’ parroco di una comunità minuscola, ma importante e se si mette a criticare il suo datore di lavoro lo fa , a mio avviso, perché gli vuole bene! Quindi da dove questa insolita censura?
Le sue critiche propositive, schiette, incisive, sono state ignorate, boicottate, combattute, come provenienti da un pulpito screditato e soprattutto senza potere.
In questo libro, scomparso, racconta, senza dimenticare alcun particolare, che cosa si mangiava in seminario, tutti i giovedì di ogni anno, anzi di tutti i tredici anni ( gli anni trascorsi in fabbrica), come predicava don Lovo, ossessionato da san Luigi e la sua castità inconfutabile, descrive la spirituale saggezza di monsignor Peressutti, la perfida intelligenza del prof. Negus che infieriva sui deboli e tanti altri momenti di vita vissuta a quei tempi da innumerevoli giovani. Pensate che in quegli anni, dal 1950al 1960, i giovani andavano in seminario a frotte: c’erano ben tre sezioni nelle medie con più di cento alunni!
Don Bellina descrive con minuziosa precisione particolari che hanno coinvolto, come me, numerosi giovani che riuscivano, pur con qualche sacrificio, a studiare in un luogo protetto e senza molta spesa.
Nel raccontare assieme alla sua, la storia di tanti giovani passati nella “fabriche dai predis” don Bellina è spietato, perfino micidiale.
Non perdona nulla e si ricorda con puntigliosa memoria tutte le umiliazioni che quella congrega gli ha fatto ingoiare. Quello che ha rimuginato dentro in “ chei agns dal nestri calvari…in chel lûc di pocjs sodisfazions” è raccontato in un friulano semplice e comprensibile in un libro che non potrete più acquistare, tolto alla vostra conoscenza ed al vostro giudizio.
E’ vero o falso quello che don Bellina ci racconta?
Il “ seminari erial propit” una prigione? Anche se non ti tenevano legato?…
L’educazione ivi impartita da lunatici professori spesso disadattati, contribuiva a formare o a deformare pur che si entrasse “tal stamp clericâl?
Pure io sono passato in quella fabbrica, cui serbo nonostante tutto, un sentimento di gratitudine, perché mi ha dato cultura e sicurezza. Non capisco perché criticare una “scuola” debba meritare l’ostracismo? Perché non hanno scritto una testimonianza a controprova? Che so? “Il Seminario aiuola di santi?” o “Il Seminario esempio educativo”.
I ricordi possono fare male.
Pre Belline ha sicuramente fatto male, con il suo libro , a quei preti che tuttora non accettano di essere venuti fuori da una “fabbrica”, conformati secondo uno stampo unico. Accettare il proprio passato è difficile soprattutto per quelli che oggi sono diventati monsignori, arcidiaconi, vicari o vescovi, ma che cosa è importante ? Essere o apparire?
Quello che non mi sembra assolutamente cambiato è che se è vero che i preti sono diminuiti, non sono proprio cambiati certi metodi arbitrari e crudeli, inquisitori, attribuibili a chi ha deciso di togliere, con insindacabile giudizio, un libro che più che peggiorare ci avrebbe fatto riflettere.
Ma forse, loro, non vogliono farci riflettere. Così come non sono riusciti a riflettere ed a pensare che la chiesa avrebbe dovuto anticipare i tempi non a farsi superare da questi. Fra qualche decennio la chiesa assumerà forme nuove di testimonianza, ma a pagare saranno i pre Belline che, umilmente, dicendo la loro idea , incasseranno più di qualche sberla.
Come ultima conclusione mi viene da dire che se “la fabriche” è fallita i capi continuano , sotto antiche spoglie, a comandare. Anche il comunismo, crollato il muro di Berlino, avrebbe dovuto sparire, invece ce lo ritroviamo ad ogni occasione.
Per non uscire dal tema concludo meravigliandomi che gli intellettuali friulani abbiano speso ben poco , quasi nulla, qualche fievole voce, per protestare contro l’imposizione, ridicola e beffarda, che qualcuno si è arrogato di prendere quel libro e buttarlo nel cesso.
Non esito a definire “vergognoso, anacronistico, offensivo” quanto è successo a questo libro, quasi fossimo in regime cambogiano!
MARINO PLAZZOTTA
P:S: Di seguito una traduzione, non autorizzata dall’autore, delle prime pagine di questo libro che conserverò con cura.
Se volete sapere di più cliccate qui gosper1@tin.it
La fabriche dai predis
di ANTONI BELINE
INTRODUZIONE
Anche se i cambiamenti radicali e generazionali stanno sconvolgendo sempre di più la nostra fisionomia culturale e religiosa, resta ancora vera l’affermazione di Benedetto Croce che “non possiamo non chiamarci cristiani”. Addirittura nel senso di cristiano-cattolico, che è una delle forme di essere cristiani. Perché la religione ci ha segnati tanto in profondità che si potrebbe parlare di una sorta di somatizzazione, di una modificazione organica.
Se questo vale per gli italiani, vale con più ragione per noi friulani, che siamo nati come popolo nel grembo di Aquileia e cresciuti attorno alla chiesa e all’ombra del campanile. Infatti uno dei difetti che tutti ci riconoscono, magari a torto, è quello di essere “campanilisti” e legati ognuno alla sua “parrocchia”. Che si può tradurre in selvatici, individualisti e asociali.
L’influenza del nostro background culturale-religioso cattolico è tanto in positivo che in negativo. Nel senso che, se anche andiamo sempre più raramente in chiesa o non andiamo proprio e siamo diventati neutri o contrari, ci sono rimaste le virtù e i difetti tipici di una società di stampo cattolico.
Per conoscere meglio la tipologia del friulano, base e premessa di ogni discorso sensato, sarà pertanto opportuno andare a vedere che sorta di religione ci ha formati e deformati. A differenza dei protestanti, che danno grande importanza alla coscienza e soprattutto alla Scrittura, senza mediazioni e intermediazioni di sorte, la nostra religione o religiosità è stata centrata sulla mediazione, quasi esclusiva, della gerarchia, in particolare del prete, che l’abbiamo sempre visto e considerato come il referente principale e obbligatorio nel nostro rapporto con la divinità. Non è un caso che il clericalismo e l’anticlericalismo siano ortiche che crescono solo nell’orto dei cattolici. Perché per noi la figura del prete, del parroco è stata determinante e discriminante, al punto che tanta gente va in chiesa e crede in Dio grazie a un prete santo e tanta gente non va in chiesa e non crede in niente per colpa di un prete testardo ed imbecille.
Arrivato ad una età in cui si può fare un minimo di bilancio e di riflessione e, trovandomi per combinazione nell’ambito clericale, mi è sembrato giusto studiare la figura, lo stampo, il modello del prete, per capire e spiegarmi la figura, lo stampo, il modello dei nostri cristiani. Perché i preti hanno avuto grandi meriti nella nostra storia personale e sociale, come hanno avuto grandi colpe. Arriverei a dire che non si può scrivere la storia del Friuli senza scrivere un grande capitolo sulla chiesa e sui preti. Sono stato contento di leggere che uno studioso di religioni americano, Antony D. Smith, ha trovato che in tutte le minoranze etniche e linguistiche il prete e la religione hanno una funzione insostituibile. Scappato il politico, sparito lo studiato, resta il prete, a prendersi debiti e crediti, a fare da papa e da re. Conoscere dunque i preti può diventare una chiave importante per aprire tante porte chiuse e per fare luce su tanti angoli oscuri.
Ma come conoscere i preti? Leggendo i documenti del Vaticano e della curia? Leggendo le vite dei santi, quasi tutti preti, frati e suore? Leggendo la tanta letteratura che in ogni secolo e in ogni parte del mondo è stata dedicata a loro? Andando ad interpellare la gente? Andando ad interpellare i diretti interessati? Tutte strade buone e percorribili, che possono dare qualche risultato illuminante.
Io ho preferito andare a studiare il posto, là, da dove vengono e, meglio, venivano fuori i preti, quando era grande abbondanza e si poteva permettersi anche di fare “gli americani”, i grandi e diradare senza stare troppo a trattare. Il posto si chiama “seminario”. E’ stato inventato e codificato nel 1500, e precisamente in quel Concilio Tridentino (1545-1563) organizzato per combattere i protestanti, che è durato e dura, nella sostanza, fino al giorno d’oggi. La parola viene chiaramente da “semente “, una sorte di vivaio per piantine che dovevano essere guardate dai venti del secolo e riscaldate con il calore della santità.
In quei tempi di miseria materiale, i seminari godevano di grande abbondanza numerica, al punto che la nostra gente, per dire che “ce n’era ‘una strage”, diceva ‘un seminario’. Cosa che sicuramente oggi stonerebbe. Però l’aspetto più caratteristico di questo posto di formazione clericale, che la retorica del tempo chiamava anche “santuario”, non era il numero degli eletti ma lo stampo di educazione. Uno stampo soprattutto negativo, immobile, ossessionato a far sparire l’uomo vero, l’uomo che diventa prete, per sostituirlo con l’uomo nuovo, il prete che non è più uomo.
Questa struttura è durata quattro secoli e ha mandato fuori centinaia, migliaia di preti, una stirpe per conto suo, tutta compatta, tutta uguale, tutta differente e alternativa alla gente normale. Che se in tempi di clericalizzazione e di sacralizzazione generalizzate poteva essere comprensibile e addirittura accettabile, oggi è tremendamente, scandalosamente stonata, incomprensibile e soprattutto inaccettabile.
Queste pagine sono una visita in quel luogo e in quell’ambiente, fatta da uno che ha passato li dentro tredici anni e dunque può vantare qualche titolo. Le ho scritte per fare luce sull’anormalità del prete, per trovare una qualche ragione alla sua stravaganza rispetto alla gente normale. Per capire quello che gli hanno fatto per ridurlo così e dunque per trovare una qualche attenuante e, se è possibile, un po’ di comprensione, come si ha per tutte le vittime. Non è un lavoro contro i preti ma, contro la struttura che li ha ridotti così.
Ho scritto anche per dare una testimonianza alternativa a quella oleografica fornita dal mondo clericale, che sicuramente loda e dà risalto al suo prodotto nascondendo colpe e limiti. Queste testimonianze, apparentemente inutili, hanno il vantaggio di offrire una lettura diversa, contraria, inedita. Di modo che, un domani, se Dio vorrà, si potrà sentire un’altra campana, meno edificante e celebrativa ma non per quello meno vera. Una testimonianza personale, ma provata sulla mia pelle e dunque genuina.
Volevo mettere come titolo “memorie dall’oltretomba”. Poi mi era venuta la voglia di mettere “memorie di un sopravvissuto”, ma non arrivavo a trovare la parola giusta in friulano. Alla fine ho preferito un titolo più generico ma forse più incisivo e comprensibile: La fabriche dai predis - La fabbrica dei preti.
Una fabbrica che non ha saputo o potuto o voluto camminare con i tempi. Si è ostinata, prendendo come un punto di onore, a mandar fuori sempre quel prodotto, sempre più standardizzato, sempre più uguale, sempre più fuori dal tempo. Fino a che è arrivata la crisi o il momento del rendiconto.
Una prova del Signore, ha detto una persona! Un castigo di Dio! ha detto un’altra. Una buona occasione per cambiare sistema! dice ancora un’altra. Io, la mia idea la ho e ho avuto modo di dirla in più occasioni.
A quelli che si strappano la tonaca domandandosi come ha potuto franare in maniera così repentina, io rispondo che la domanda sarebbe, in caso, un’altra: “Come ha fatto a durare così tanto a lungo?”. Ma lasciamo stare considerazioni sicuramente importanti ma che non si possono sbrigare in quattro e quattr’otto. Occorre tempo, umiltà e soprattutto libertà. Entriamo assieme nella grande fabbrica silenziosa. Prima, però togliamo il cappello e fermiamoci un attimo a pregare per tanta manovalanza sacrificata e rovinata in tutti ‘questi’ anni e secoli. E, facendo uno sforzo, spendiamo un recuie anche per le maestranze. Forse anche loro vittime di un sistema che uccideva l’uomo illudendosi di onorare quel Dio che l’aveva creato come coronamento del creato a sua immagine e somiglianza.
IL SOGNO DI UNA MADRE
Santità nella culla
Siccome i santi sono persone straordinarie rispetto alla normalità, come stelle che luccicano in un cielo tutto grigio, è evidente che anche la loro vita è differente di quella della “massa damnatorum” della “folla dei dannati” che saremmo noi. La differenza di base è la loro vita interiore, il loro grado di grazia, la santità delle loro anima, ma questo è troppo poco per i nostri occhi curiosi e allora bisogna che la straordinarietà di palesi anche dal di fuori. E non solo in morte o dopo morti, ma anche in vita.. L’ideale sarebbe che tutta la vita fosse fuori dalla nostra ordinarietà, che Dio palesasse la loro grandezza fin dai primi anni, per non trovare in loro ombra di normalità. I migliori sono segnati dal momento della nascita o addirittura prima.
Mi ricordi di aver letto, negli anni della mia formazione, un miscuglio di vite di santi ed agiografie, una più edificante di quell’altra, in cui Dio sfogava tutta la sua fantasia per sottolineare la santità dei suoi servitori. Bambini che nascevano con una piccola croce in mano, bambine alle quali uscivano di bocca delle api, culle da cui si sentivano canti mai sentiti, case che si illuminavano come se avessero preso fuoco e la gente correva spasimando coi i secchi e trovava un ragazzino bello come un angelo. Ci sono stati santi che, nei giorni di astinenza, vuoi il mercoledì o il venerdì, non volevano succhiare il latte materno e altri che hanno incominciato a parlare appena usciti dal grembo della madre.
Non mancano naturalmente i sogni e le premonizioni, strada consueta che Dio adopera anche nella Bibbia per avvertire degli esempi che sta preparando.
Ebbene, se invece di essere un beato prete, grande peccatore e eretico, fossi stato un san Giovanni Bosco, o un altro santo, anche nella mia vita avrebbero trovato qualcosa di straordinario. Per esempio il sogno di una madre.
Un piccolo prete avanti alla Madonna
Sono nato l’11 febbraio del 1941. In quel giorno la chiesa ricorda l’apparizione della Madonna di Lourdes a santa Bernardette. Può esistere un santo che non sia nato o morto in una giornata dedicata alla Madonna? Se deve tener conto che, a differenza della gente normale che vive in una quotidiana casualità, per le anime elette non esiste casualità e tutto ha un significato, compresi i giorni del calendario.
Quando stavo per nascere, mia madre si è sognata che, davanti all’altare della Madonna, c’era un bambino vestito da prete, con la piccola tonaca nera e la cotta bianca, tutto intento a guardare la Madonna e a pregare. Quella volta non si sapeva, come adesso, se nasceva bambino o bambina, e io non ero l’unico maschio della famiglia, avendo un fratello più grande di me e uno più piccolo. Mia madre non ha fatto nessun sogno con nessuno degli altri e dunque si può dire con relativa sicurezza che quel piccolo prete ero io.
LIS BARONADIS DI PINOCHIO
Nel 1977 pre Toni Beline era parroco di Valle e Rivalpo e maestro elementare a Trelli in Val d'Incarojo (Carnia orientale). Era canonico della pieve-cattedrale di S. Pietro di Carnia.
Fumava troppo (purtroppo) e di lì a poco (1978) avrebbe conosciuto la prima stazione della sua Via Crucis terrena (un grave infarto intestinale che ne fiaccò subito la forte fibra carnico-friulana).
Ebbene in questo fortunato e tranquillo tempo della sua esistenza, pre Toni compì il suo primo gesto d'amore verso i suoi scolari treleani: tradusse in friulano le "Avventure di Pinocchio" di Carlo Collodi.
Questa fu una delle sue prime opere (rivolte ai bambini) più consistenti sia per l'impegno profuso sia per l'editrice che lo pubblicò (Fratelli Ribis di Udine).
La storia di Pinocchio la conosciamo tutti più o meno, perchè ci è stata raccontata dai genitori, dalla maestra, dalla televisione, dal cinema: basti pensare allo splendido Pinocchio di Comencini, interpretato (oltre 30 anni fa) da Nino Manfredi, Andrea Balestri, Franco e Ciccio, Gina Lollobrigida oppure al recentissimo (ma deludente) Pinocchio di Roberto Benigni.
Il Pinocchio di pre Toni si discosta nettamente da queste moderne rielaborazioni visive e resta aderente allo scritto di Collodi: per questo appare più fresco e naturale, più vicino alla sensibilità dei bambini che possono così più facilmente liberare la fantasia e darle corda per un viaggio interminabile alla scoperta dei vizi e delle virtù dell'uomo che non ha tempo...
Se alla freschezza di Collodi associamo poi la scoppiettante lingua friulana di pre Toni, il risultato diventa davvero eccezionale, perchè il friulano si adatta assai bene al tipo di racconto che viene così maggiormente esaltato a tratti in maniera molto simpatica e divertente.
I dialoghi soprattutto paiono valorizzati dal vernacolo friulano, come pure alcuni nomi dei protagonisti: Sefut (Geppetto), l'Agane (fata Turchina), il paîs dai matez (Il paese dei balocchi)...
Forse avrebbe dovuto friulanizzare Pinocchio in Sbernocjo (ma probabilmente pre Toni non se l'è sentita di "sfregiare" il protagonista di Collodi)...
Una gran bel libro (illustrato da Giancarlo Gualandra) che meriterebbe una rivisitazione letteraria (alla riscoperta del primo pre Toni Bellina) ed una diffusione scolastica come testo di lettura, tanto è attuale e soprattutto pregnante di marilenghe schietta e priva di italianismi o, peggio, di inglesismi.
Dedicato certamente alla giovani coppie carniche e friulane per un tentativo di disintossicazione dei propri figli piccoli da internet e dalla televisione italiana che, oltre a tanta spazzatura, propone ben poco di istruttivo.
Nel 1977 pre Toni Beline era parroco di Valle e Rivalpo e maestro elementare a Trelli in Val d'Incarojo (Carnia orientale). Era canonico della pieve-cattedrale di S. Pietro di Carnia.
Fumava troppo (purtroppo) e di lì a poco (1978) avrebbe conosciuto la prima stazione della sua Via Crucis terrena (un grave infarto intestinale che ne fiaccò subito la forte fibra carnico-friulana).
Ebbene in questo fortunato e tranquillo tempo della sua esistenza, pre Toni compì il suo primo gesto d'amore verso i suoi scolari treleani: tradusse in friulano le "Avventure di Pinocchio" di Carlo Collodi.
Questa fu una delle sue prime opere (rivolte ai bambini) più consistenti sia per l'impegno profuso sia per l'editrice che lo pubblicò (Fratelli Ribis di Udine).
La storia di Pinocchio la conosciamo tutti più o meno, perchè ci è stata raccontata dai genitori, dalla maestra, dalla televisione, dal cinema: basti pensare allo splendido Pinocchio di Comencini, interpretato (oltre 30 anni fa) da Nino Manfredi, Andrea Balestri, Franco e Ciccio, Gina Lollobrigida oppure al recentissimo (ma deludente) Pinocchio di Roberto Benigni.
Il Pinocchio di pre Toni si discosta nettamente da queste moderne rielaborazioni visive e resta aderente allo scritto di Collodi: per questo appare più fresco e naturale, più vicino alla sensibilità dei bambini che possono così più facilmente liberare la fantasia e darle corda per un viaggio interminabile alla scoperta dei vizi e delle virtù dell'uomo che non ha tempo...
Se alla freschezza di Collodi associamo poi la scoppiettante lingua friulana di pre Toni, il risultato diventa davvero eccezionale, perchè il friulano si adatta assai bene al tipo di racconto che viene così maggiormente esaltato a tratti in maniera molto simpatica e divertente.
I dialoghi soprattutto paiono valorizzati dal vernacolo friulano, come pure alcuni nomi dei protagonisti: Sefut (Geppetto), l'Agane (fata Turchina), il paîs dai matez (Il paese dei balocchi)...
Forse avrebbe dovuto friulanizzare Pinocchio in Sbernocjo (ma probabilmente pre Toni non se l'è sentita di "sfregiare" il protagonista di Collodi)...
Una gran bel libro (illustrato da Giancarlo Gualandra) che meriterebbe una rivisitazione letteraria (alla riscoperta del primo pre Toni Bellina) ed una diffusione scolastica come testo di lettura, tanto è attuale e soprattutto pregnante di marilenghe schietta e priva di italianismi o, peggio, di inglesismi.
Dedicato certamente alla giovani coppie carniche e friulane per un tentativo di disintossicazione dei propri figli piccoli da internet e dalla televisione italiana che, oltre a tanta spazzatura, propone ben poco di istruttivo.
Sior Santul
Sior Santul (letteralmente: signor Padrino) è l’appellativo con cui, solamente in Carnia, viene ancora oggi indicato e chiamato il parroco del paese. Questo termine racchiude in sé un profondo significato poiché il parroco, battezzando tutti i bambini del paese, diviene automaticamente SANTUL (cioè Padrino) di tutti e, per diversificarlo dal padrino personale di ciascuno, viene appunto chiamato SIOR SANTUL.
Su inconsapevole e benevola istigazione dell’amico Marino, ho riletto (per la terza volta, come accade solitamente per i libri che emozionano) questo primo lavoro di pre Antoni Bellina, pubblicato 30 anni fa, nel 1976, alcuni mesi PRIMA del terremoto del 6 maggio, quando l’autore non aveva che 35 anni.
Pur se ancora acerbo nello stile, che avrà completa maturazione negli anni seguenti, pur se appesantito da inutili ripetizioni, questa opera (che a mio avviso resta la più fresca e genuina di questo autore) racchiude già in nuce tutta la filosofia ed il pensiero di pre Toni Beline, che saranno via via riproposti e approfonditi successivamente nelle oltre 100 altre pubblicazioni, che la penna fantasiosa e assai prolifica di pre Toni ha finora partorito e continua a partorire incessantemente. Vi è perfino (pag. 49 e pag. 65) il preludio al suo lavoro più conosciuto e contestato, pubblicato poi nel 1999, “La fabriche dai predis” (già presente nella nostra biblioteca), che è una singolare autobiografia nella quale pre Bellina, prendendo lo spunto da fatti personali, fa l’autopsia ad un cadavere (il seminario) riesumato dopo 30 anni dalla sua morte (avvenuta per consunzione propria e conseguente implosione). Caro pre Toni, quelle cose sul Seminario, dovevi scriverle prima, quando il malato era ancora vivente e forse (?) poteva essere ancora salvato; un’ autopsia eseguita a 30 anni di distanza dal decesso, non è mai troppo attendibile e dà spesso risultati fuorvianti o contradditori…
Questo libro invece, scritto in lingua friulana, è la biografia di don Luigi Zuliani (1876-1953), un prete carnico, che restò SIOR SANTUL nel paese di Cercivento per ben 53 anni, dal 1900 al 1953! Una vita spesa interamente a favore di un paese, fiaccato da due guerre, dal fascismo, dalla miseria, dall’ emigrazione… La penna di pre Toni sa cogliere (pur non avendolo egli conosciuto personalmente) le varie sfaccettature di SIOR SANTUL, i suoi aspetti esaltanti e i suoi limiti, i suoi tics e i suoi sbalzi d’umore, la sua totale generosità e la sua cronica povertà… Pre Toni sa scrivere in un friulano squisito, che piace fin da subito, facile, piano ma ricco di significati e immediate emozioni: si gusta davvero lo scrivere di pre Toni, che sa mirabilmente estrarre dalla nostra lingua madre i termini più adeguati (e a volte ormai desueti) per esprimere sentimenti, giudizi, perplessità, stupore, sdegno, allegria…
La grande figura di SIOR SANTUL emerge senza aureola e senza volute d’incenso ma non per questo è meno affascinante e meno coinvolgente: proprio perché è umanamente vera, questa figura di prete appare oggi molto più concreta e solida di tante altre agiografie di preti (e vescovi) che furoreggiano in questi tempi di fiction. Il SIOR SANTUL di pre Toni è un prete vero, reale, che magari va a rubare le mele ai ricchi per darle ai poveri, che magari non paga i debiti fatti per acquistare regali ai bambini, che magari non paga la bolletta della luce adducendo che l’acqua che muove le turbine della SECAB è mandata da Dio anche per lui, che magari ama il vino e non disdegna la compagnia allegra, che magari teme la Madonna Missionaria con la sua corte di mangjons… eppure SIOR SANTUL ci resta nel cuore per sempre con la sua disincantata sapienza, con la sua bonaria semplicità, con la sua fede di bambino, con quel suo terrore dei vescovi-funzionari, freddi come il naso del gatto e lontani dalla gente e dai preti…
Oltre alla splendida biografia di questo SIOR SANTUL, pre Toni Bellina ci offre nelle prime 50 pagine del libro un interessantissimo antipasto, che riguarda l’AMBIENTE in cui si muove il romanzo-biografia. Tra questi capitoli iniziali, meritano senz’altro un interesse i seguenti:
- LA CHIESA E LA SCUOLA in Carnia, dove vengono tratteggiati per sommi capi i lineamenti del problema “SCUOLA” come venne vissuto e realizzato in Carnia nel ‘700 e ‘800, quando la Chiesa era l’unica sostenitrice della istruzione del popolo, poiché lo Stato non esisteva oppure era del tutto assente su questo versante. Vi si racconta dei capellani-maestri, degli ispettori-monsignori…
- LA FAMIGLIA viene raccontata sul modello pre-terremoto 1976 e fa riferimento al tipo di famiglia patriarcale in auge in Carnia fino agli inizi degli anni ’70: molto significativi anche gli spunti profetici inseriti che vi si trovano.
- La RELIGIONE in Carnia ha da sempre una venatura consistente di luteranesimo che la rende diversa e più personale rispetto a quella del Friuli e del Veneto, più bigotta, barocca e preote…
- Il CLERICALISMO dei preti è il capitolo più singolare e sincero di pre Toni, in cui vi sono raccolti tutti i temi della successiva attività di scrittore: perché esiste il clericalismo dei preti? E quindi perché è nato poi l’anticlericalismo? Sono temi questi molto cari a pre Toni e ancora oggi costituiscono, a ben vedere, l’architrave di tutta la sua vastissima produzione letteraria in cui traspare sempre questa ansia genuina, mai appagata, di volere eliminare il CLERICALISMO dei preti, causa di tantissimi mali per il Popolo di Dio. Pre Toni ama comunque profondamente la sua Chiesa “casta et meretrix”, la vorrebbe però meno meretrix e più casta, più genuina e meno burocratica, più “accanto” e “nel” popolo, che “sopra” il popolo. Di questo si angustiava Pre Toni Beline nel 1976, a 35 anni. Di questo si angustia oggi, nel 2005, a 64 anni!
Sior Santul (letteralmente: signor Padrino) è l’appellativo con cui, solamente in Carnia, viene ancora oggi indicato e chiamato il parroco del paese. Questo termine racchiude in sé un profondo significato poiché il parroco, battezzando tutti i bambini del paese, diviene automaticamente SANTUL (cioè Padrino) di tutti e, per diversificarlo dal padrino personale di ciascuno, viene appunto chiamato SIOR SANTUL.
Su inconsapevole e benevola istigazione dell’amico Marino, ho riletto (per la terza volta, come accade solitamente per i libri che emozionano) questo primo lavoro di pre Antoni Bellina, pubblicato 30 anni fa, nel 1976, alcuni mesi PRIMA del terremoto del 6 maggio, quando l’autore non aveva che 35 anni.
Pur se ancora acerbo nello stile, che avrà completa maturazione negli anni seguenti, pur se appesantito da inutili ripetizioni, questa opera (che a mio avviso resta la più fresca e genuina di questo autore) racchiude già in nuce tutta la filosofia ed il pensiero di pre Toni Beline, che saranno via via riproposti e approfonditi successivamente nelle oltre 100 altre pubblicazioni, che la penna fantasiosa e assai prolifica di pre Toni ha finora partorito e continua a partorire incessantemente. Vi è perfino (pag. 49 e pag. 65) il preludio al suo lavoro più conosciuto e contestato, pubblicato poi nel 1999, “La fabriche dai predis” (già presente nella nostra biblioteca), che è una singolare autobiografia nella quale pre Bellina, prendendo lo spunto da fatti personali, fa l’autopsia ad un cadavere (il seminario) riesumato dopo 30 anni dalla sua morte (avvenuta per consunzione propria e conseguente implosione). Caro pre Toni, quelle cose sul Seminario, dovevi scriverle prima, quando il malato era ancora vivente e forse (?) poteva essere ancora salvato; un’ autopsia eseguita a 30 anni di distanza dal decesso, non è mai troppo attendibile e dà spesso risultati fuorvianti o contradditori…
Questo libro invece, scritto in lingua friulana, è la biografia di don Luigi Zuliani (1876-1953), un prete carnico, che restò SIOR SANTUL nel paese di Cercivento per ben 53 anni, dal 1900 al 1953! Una vita spesa interamente a favore di un paese, fiaccato da due guerre, dal fascismo, dalla miseria, dall’ emigrazione… La penna di pre Toni sa cogliere (pur non avendolo egli conosciuto personalmente) le varie sfaccettature di SIOR SANTUL, i suoi aspetti esaltanti e i suoi limiti, i suoi tics e i suoi sbalzi d’umore, la sua totale generosità e la sua cronica povertà… Pre Toni sa scrivere in un friulano squisito, che piace fin da subito, facile, piano ma ricco di significati e immediate emozioni: si gusta davvero lo scrivere di pre Toni, che sa mirabilmente estrarre dalla nostra lingua madre i termini più adeguati (e a volte ormai desueti) per esprimere sentimenti, giudizi, perplessità, stupore, sdegno, allegria…
La grande figura di SIOR SANTUL emerge senza aureola e senza volute d’incenso ma non per questo è meno affascinante e meno coinvolgente: proprio perché è umanamente vera, questa figura di prete appare oggi molto più concreta e solida di tante altre agiografie di preti (e vescovi) che furoreggiano in questi tempi di fiction. Il SIOR SANTUL di pre Toni è un prete vero, reale, che magari va a rubare le mele ai ricchi per darle ai poveri, che magari non paga i debiti fatti per acquistare regali ai bambini, che magari non paga la bolletta della luce adducendo che l’acqua che muove le turbine della SECAB è mandata da Dio anche per lui, che magari ama il vino e non disdegna la compagnia allegra, che magari teme la Madonna Missionaria con la sua corte di mangjons… eppure SIOR SANTUL ci resta nel cuore per sempre con la sua disincantata sapienza, con la sua bonaria semplicità, con la sua fede di bambino, con quel suo terrore dei vescovi-funzionari, freddi come il naso del gatto e lontani dalla gente e dai preti…
Oltre alla splendida biografia di questo SIOR SANTUL, pre Toni Bellina ci offre nelle prime 50 pagine del libro un interessantissimo antipasto, che riguarda l’AMBIENTE in cui si muove il romanzo-biografia. Tra questi capitoli iniziali, meritano senz’altro un interesse i seguenti:
- LA CHIESA E LA SCUOLA in Carnia, dove vengono tratteggiati per sommi capi i lineamenti del problema “SCUOLA” come venne vissuto e realizzato in Carnia nel ‘700 e ‘800, quando la Chiesa era l’unica sostenitrice della istruzione del popolo, poiché lo Stato non esisteva oppure era del tutto assente su questo versante. Vi si racconta dei capellani-maestri, degli ispettori-monsignori…
- LA FAMIGLIA viene raccontata sul modello pre-terremoto 1976 e fa riferimento al tipo di famiglia patriarcale in auge in Carnia fino agli inizi degli anni ’70: molto significativi anche gli spunti profetici inseriti che vi si trovano.
- La RELIGIONE in Carnia ha da sempre una venatura consistente di luteranesimo che la rende diversa e più personale rispetto a quella del Friuli e del Veneto, più bigotta, barocca e preote…
- Il CLERICALISMO dei preti è il capitolo più singolare e sincero di pre Toni, in cui vi sono raccolti tutti i temi della successiva attività di scrittore: perché esiste il clericalismo dei preti? E quindi perché è nato poi l’anticlericalismo? Sono temi questi molto cari a pre Toni e ancora oggi costituiscono, a ben vedere, l’architrave di tutta la sua vastissima produzione letteraria in cui traspare sempre questa ansia genuina, mai appagata, di volere eliminare il CLERICALISMO dei preti, causa di tantissimi mali per il Popolo di Dio. Pre Toni ama comunque profondamente la sua Chiesa “casta et meretrix”, la vorrebbe però meno meretrix e più casta, più genuina e meno burocratica, più “accanto” e “nel” popolo, che “sopra” il popolo. Di questo si angustiava Pre Toni Beline nel 1976, a 35 anni. Di questo si angustia oggi, nel 2005, a 64 anni!
Sior Santul
Sior Santul (letteralmente: signor Padrino) è l’appellativo con cui, solamente in Carnia, viene ancora oggi indicato e chiamato il parroco del paese. Questo termine racchiude in sé un profondo significato poiché il parroco, battezzando tutti i bambini del paese, diviene automaticamente SANTUL (cioè Padrino) di tutti e, per diversificarlo dal padrino personale di ciascuno, viene appunto chiamato SIOR SANTUL.
Su inconsapevole e benevola istigazione dell’amico Marino, ho riletto (per la terza volta, come accade solitamente per i libri che emozionano) questo primo lavoro di pre Antoni Bellina, pubblicato 30 anni fa, nel 1976, alcuni mesi PRIMA del terremoto del 6 maggio, quando l’autore non aveva che 35 anni.
Pur se ancora acerbo nello stile, che avrà completa maturazione negli anni seguenti, pur se appesantito da inutili ripetizioni, questa opera (che a mio avviso resta la più fresca e genuina di questo autore) racchiude già in nuce tutta la filosofia ed il pensiero di pre Toni Beline, che saranno via via riproposti e approfonditi successivamente nelle oltre 100 altre pubblicazioni, che la penna fantasiosa e assai prolifica di pre Toni ha finora partorito e continua a partorire incessantemente. Vi è perfino (pag. 49 e pag. 65) il preludio al suo lavoro più conosciuto e contestato, pubblicato poi nel 1999, “La fabriche dai predis” (già presente nella nostra biblioteca), che è una singolare autobiografia nella quale pre Bellina, prendendo lo spunto da fatti personali, fa l’autopsia ad un cadavere (il seminario) riesumato dopo 30 anni dalla sua morte (avvenuta per consunzione propria e conseguente implosione). Caro pre Toni, quelle cose sul Seminario, dovevi scriverle prima, quando il malato era ancora vivente e forse (?) poteva essere ancora salvato; un’ autopsia eseguita a 30 anni di distanza dal decesso, non è mai troppo attendibile e dà spesso risultati fuorvianti o contradditori…
Questo libro invece, scritto in lingua friulana, è la biografia di don Luigi Zuliani (1876-1953), un prete carnico, che restò SIOR SANTUL nel paese di Cercivento per ben 53 anni, dal 1900 al 1953! Una vita spesa interamente a favore di un paese, fiaccato da due guerre, dal fascismo, dalla miseria, dall’ emigrazione… La penna di pre Toni sa cogliere (pur non avendolo egli conosciuto personalmente) le varie sfaccettature di SIOR SANTUL, i suoi aspetti esaltanti e i suoi limiti, i suoi tics e i suoi sbalzi d’umore, la sua totale generosità e la sua cronica povertà… Pre Toni sa scrivere in un friulano squisito, che piace fin da subito, facile, piano ma ricco di significati e immediate emozioni: si gusta davvero lo scrivere di pre Toni, che sa mirabilmente estrarre dalla nostra lingua madre i termini più adeguati (e a volte ormai desueti) per esprimere sentimenti, giudizi, perplessità, stupore, sdegno, allegria…
La grande figura di SIOR SANTUL emerge senza aureola e senza volute d’incenso ma non per questo è meno affascinante e meno coinvolgente: proprio perché è umanamente vera, questa figura di prete appare oggi molto più concreta e solida di tante altre agiografie di preti (e vescovi) che furoreggiano in questi tempi di fiction. Il SIOR SANTUL di pre Toni è un prete vero, reale, che magari va a rubare le mele ai ricchi per darle ai poveri, che magari non paga i debiti fatti per acquistare regali ai bambini, che magari non paga la bolletta della luce adducendo che l’acqua che muove le turbine della SECAB è mandata da Dio anche per lui, che magari ama il vino e non disdegna la compagnia allegra, che magari teme la Madonna Missionaria con la sua corte di mangjons… eppure SIOR SANTUL ci resta nel cuore per sempre con la sua disincantata sapienza, con la sua bonaria semplicità, con la sua fede di bambino, con quel suo terrore dei vescovi-funzionari, freddi come il naso del gatto e lontani dalla gente e dai preti…
Oltre alla splendida biografia di questo SIOR SANTUL, pre Toni Bellina ci offre nelle prime 50 pagine del libro un interessantissimo antipasto, che riguarda l’AMBIENTE in cui si muove il romanzo-biografia. Tra questi capitoli iniziali, meritano senz’altro un interesse i seguenti:
- LA CHIESA E LA SCUOLA in Carnia, dove vengono tratteggiati per sommi capi i lineamenti del problema “SCUOLA” come venne vissuto e realizzato in Carnia nel ‘700 e ‘800, quando la Chiesa era l’unica sostenitrice della istruzione del popolo, poiché lo Stato non esisteva oppure era del tutto assente su questo versante. Vi si racconta dei capellani-maestri, degli ispettori-monsignori…
- LA FAMIGLIA viene raccontata sul modello pre-terremoto 1976 e fa riferimento al tipo di famiglia patriarcale in auge in Carnia fino agli inizi degli anni ’70: molto significativi anche gli spunti profetici inseriti che vi si trovano.
- La RELIGIONE in Carnia ha da sempre una venatura consistente di luteranesimo che la rende diversa e più personale rispetto a quella del Friuli e del Veneto, più bigotta, barocca e preote…
- Il CLERICALISMO dei preti è il capitolo più singolare e sincero di pre Toni, in cui vi sono raccolti tutti i temi della successiva attività di scrittore: perché esiste il clericalismo dei preti? E quindi perché è nato poi l’anticlericalismo? Sono temi questi molto cari a pre Toni e ancora oggi costituiscono, a ben vedere, l’architrave di tutta la sua vastissima produzione letteraria in cui traspare sempre questa ansia genuina, mai appagata, di volere eliminare il CLERICALISMO dei preti, causa di tantissimi mali per il Popolo di Dio. Pre Toni ama comunque profondamente la sua Chiesa “casta et meretrix”, la vorrebbe però meno meretrix e più casta, più genuina e meno burocratica, più “accanto” e “nel” popolo, che “sopra” il popolo. Di questo si angustiava Pre Toni Beline nel 1976, a 35 anni. Di questo si angustia oggi, nel 2005, a 64 anni!
Sior Santul (letteralmente: signor Padrino) è l’appellativo con cui, solamente in Carnia, viene ancora oggi indicato e chiamato il parroco del paese. Questo termine racchiude in sé un profondo significato poiché il parroco, battezzando tutti i bambini del paese, diviene automaticamente SANTUL (cioè Padrino) di tutti e, per diversificarlo dal padrino personale di ciascuno, viene appunto chiamato SIOR SANTUL.
Su inconsapevole e benevola istigazione dell’amico Marino, ho riletto (per la terza volta, come accade solitamente per i libri che emozionano) questo primo lavoro di pre Antoni Bellina, pubblicato 30 anni fa, nel 1976, alcuni mesi PRIMA del terremoto del 6 maggio, quando l’autore non aveva che 35 anni.
Pur se ancora acerbo nello stile, che avrà completa maturazione negli anni seguenti, pur se appesantito da inutili ripetizioni, questa opera (che a mio avviso resta la più fresca e genuina di questo autore) racchiude già in nuce tutta la filosofia ed il pensiero di pre Toni Beline, che saranno via via riproposti e approfonditi successivamente nelle oltre 100 altre pubblicazioni, che la penna fantasiosa e assai prolifica di pre Toni ha finora partorito e continua a partorire incessantemente. Vi è perfino (pag. 49 e pag. 65) il preludio al suo lavoro più conosciuto e contestato, pubblicato poi nel 1999, “La fabriche dai predis” (già presente nella nostra biblioteca), che è una singolare autobiografia nella quale pre Bellina, prendendo lo spunto da fatti personali, fa l’autopsia ad un cadavere (il seminario) riesumato dopo 30 anni dalla sua morte (avvenuta per consunzione propria e conseguente implosione). Caro pre Toni, quelle cose sul Seminario, dovevi scriverle prima, quando il malato era ancora vivente e forse (?) poteva essere ancora salvato; un’ autopsia eseguita a 30 anni di distanza dal decesso, non è mai troppo attendibile e dà spesso risultati fuorvianti o contradditori…
Questo libro invece, scritto in lingua friulana, è la biografia di don Luigi Zuliani (1876-1953), un prete carnico, che restò SIOR SANTUL nel paese di Cercivento per ben 53 anni, dal 1900 al 1953! Una vita spesa interamente a favore di un paese, fiaccato da due guerre, dal fascismo, dalla miseria, dall’ emigrazione… La penna di pre Toni sa cogliere (pur non avendolo egli conosciuto personalmente) le varie sfaccettature di SIOR SANTUL, i suoi aspetti esaltanti e i suoi limiti, i suoi tics e i suoi sbalzi d’umore, la sua totale generosità e la sua cronica povertà… Pre Toni sa scrivere in un friulano squisito, che piace fin da subito, facile, piano ma ricco di significati e immediate emozioni: si gusta davvero lo scrivere di pre Toni, che sa mirabilmente estrarre dalla nostra lingua madre i termini più adeguati (e a volte ormai desueti) per esprimere sentimenti, giudizi, perplessità, stupore, sdegno, allegria…
La grande figura di SIOR SANTUL emerge senza aureola e senza volute d’incenso ma non per questo è meno affascinante e meno coinvolgente: proprio perché è umanamente vera, questa figura di prete appare oggi molto più concreta e solida di tante altre agiografie di preti (e vescovi) che furoreggiano in questi tempi di fiction. Il SIOR SANTUL di pre Toni è un prete vero, reale, che magari va a rubare le mele ai ricchi per darle ai poveri, che magari non paga i debiti fatti per acquistare regali ai bambini, che magari non paga la bolletta della luce adducendo che l’acqua che muove le turbine della SECAB è mandata da Dio anche per lui, che magari ama il vino e non disdegna la compagnia allegra, che magari teme la Madonna Missionaria con la sua corte di mangjons… eppure SIOR SANTUL ci resta nel cuore per sempre con la sua disincantata sapienza, con la sua bonaria semplicità, con la sua fede di bambino, con quel suo terrore dei vescovi-funzionari, freddi come il naso del gatto e lontani dalla gente e dai preti…
Oltre alla splendida biografia di questo SIOR SANTUL, pre Toni Bellina ci offre nelle prime 50 pagine del libro un interessantissimo antipasto, che riguarda l’AMBIENTE in cui si muove il romanzo-biografia. Tra questi capitoli iniziali, meritano senz’altro un interesse i seguenti:
- LA CHIESA E LA SCUOLA in Carnia, dove vengono tratteggiati per sommi capi i lineamenti del problema “SCUOLA” come venne vissuto e realizzato in Carnia nel ‘700 e ‘800, quando la Chiesa era l’unica sostenitrice della istruzione del popolo, poiché lo Stato non esisteva oppure era del tutto assente su questo versante. Vi si racconta dei capellani-maestri, degli ispettori-monsignori…
- LA FAMIGLIA viene raccontata sul modello pre-terremoto 1976 e fa riferimento al tipo di famiglia patriarcale in auge in Carnia fino agli inizi degli anni ’70: molto significativi anche gli spunti profetici inseriti che vi si trovano.
- La RELIGIONE in Carnia ha da sempre una venatura consistente di luteranesimo che la rende diversa e più personale rispetto a quella del Friuli e del Veneto, più bigotta, barocca e preote…
- Il CLERICALISMO dei preti è il capitolo più singolare e sincero di pre Toni, in cui vi sono raccolti tutti i temi della successiva attività di scrittore: perché esiste il clericalismo dei preti? E quindi perché è nato poi l’anticlericalismo? Sono temi questi molto cari a pre Toni e ancora oggi costituiscono, a ben vedere, l’architrave di tutta la sua vastissima produzione letteraria in cui traspare sempre questa ansia genuina, mai appagata, di volere eliminare il CLERICALISMO dei preti, causa di tantissimi mali per il Popolo di Dio. Pre Toni ama comunque profondamente la sua Chiesa “casta et meretrix”, la vorrebbe però meno meretrix e più casta, più genuina e meno burocratica, più “accanto” e “nel” popolo, che “sopra” il popolo. Di questo si angustiava Pre Toni Beline nel 1976, a 35 anni. Di questo si angustia oggi, nel 2005, a 64 anni!
DE PROFUNDIS
Media vita in morte sumus
Note sul libro “De profundis” di Pre Antoni Beline)
Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito sentenziare: “vita brevis est”. Forse era un prete, forse un filosofo, forse un anziano o un genitore.Per certo sappiamo che ciò non ebbe mai alcuna influenza sulle nostre abitudini quotidiane. Nemmeno la diffusa certezza che “media vita in morte sumus”, cioè che proprio mentre viviamo ci avviciniamo al nostro destino, credo, abbia mai indotto qualcuno a cambiare la propria vita. L’ineluttabilità della nostra sorte ci lascia, per fortuna, indifferenti.
Per alcuni, poi, il vivere assume straordinarie caratteristiche di serenità, tranquillità, frequenti momenti di soddisfazione. Costoro attraversano il tempo che gli è concesso quasi fosse una passeggiata, quasi fischiando, anzi fischiano proprio. Sono dei privilegiati soprattutto perché condividono un minimo comune divisore che è importante e fondamentale: la salute. “Mai vût nuie” ripetono come fosse tutto loro merito!
Gli altri, cioè quanti passano la vita piangendo, o come si dice dalle nostre parti “càinant”, neppure osano chiedersi perché gli è “toccata” questa vita e non un’altra.
Il libro di Pre Antoni “De Profundis” (in lingua friulana) è una precisa descrizione di quello che può accadere a quanti, improvvisamente, sono colti da qualche cosa che li sorprende, li stupisce ed avvilisce. Non si parla di morte improvvisa. La morte come si sa “quando c’è noi non ci siamo”. Si racconta della malattia che ti fa prima uno sgambetto, poi ti aggredisce con progressione inesorabile, incatenandoti, diventa cronica. Più grave è, più grande è la sorpresa di chi la subisce.
Pre Antoni elenca con una precisione professionale, ma anche con umanità, tutti i passaggi che uno deve superare per arrivare ad accettare la dialisi. La dialisi è un trattamento ospedaliero, cui ci si sottopone ogni due o tre giorni, che rigenera il sangue e non può essere abbandonata pena la morte in breve tempo. Quando questo trattamento fu prospettato a pre Antoni, nonostante la delicatezza ed il tatto dei medici, provocò in lui una reazione naturale ed esistenziale, quasi irrevocabile: “Ch’al lassi che la nature a fasi la so strade” disse al dottore che gli spiegava la ‘catena’ della dialisi, “non umiliante, ma condizionante”. “Parcé a mi Signôr?” Questa domanda che può capitare a ciascuno di noi di dover porsi nel corso della vita, soprattutto quando questa è limitata, asservita, condizionata dalla malattia, può lasciarci senza risposta. “Parcè a mi Signôr?” Se non si riesce a rispondere in brevissimo tempo può indurre a farci molto male.
“Il dolore è quanto di più personale, intrasferibile possa darsi nella vita degli uomini” scrive Salvatore Natoli ed aggiunge che “il dolore per quanto preparati si sia inchioda,comprime ed obbliga”. Bisogna sopportarlo, combatterlo, sperando di vincerlo.
“Il dolor po pocâti a preâ o a bestemâ, ad acetâ o a rifiutâ” scrive Pre Antoni e non nasconde l’ angoscia che si distende sul futuro, né la consapevolezza di avvicinarsi ad un evento finale che tale situazione accelera.
Ricorda le malattie che lo hanno accompagnato da sempre: broncopolmoniti, occlusioni di arterie, infarto intestinale, “la curtissade che mi ha forât i bugjei”, fino alla fase finale: la dialisi.
Con paziente ironia e serenità pre Antoni legge la sua vita, racconta i suoi drammi e propone una via di uscita: accettare.
Non esistono parole che possano convincerti ad essere morituro ed accettare un destino scritto dalla natura. Resta repellente ed illogico, incombente come una frana.
Quest’uomo ci aiuta non ad autoconsolarci, ma ad accettare il nostro destino. Ci insegna ad avvicinarci al fine della nostra vita senza entusiasmo, ma anche senza disperazione. E’ commovente accompagnarlo in quel difficile momento in cui il medico gli conferma che ormai a quel punto, la scelta “l’à fate il mâl” che potrà essere controllato, ma non eliminato o fermato.
Il cambiamento di abitudini, di orari, di vestiti, di alimentazione è registrato con bonaria ironia “cul orari, just, dal ospedâl, a vot di sere si è za stufs di ve zenât” (106) oppure “un come me, ch’al è vivut par une vite dibessól e che s’al sint ancje dome a crizâ une brê nol siere voli, al è evident che al varà di fa vitis di cjan par usasi a durmì cun atre int tune struture simpri in funzion (57).
La “disinvestitura” che l’ospedale mette in atto con tutti i ricoverati è accomunante: siamo tutti uguali. Forse per un prete rinunciare ai suoi segni distintivi, alla sua divisa, al suo potere potrebbe essere problematico. Essere come gli altri dopo aver occupato posizioni di potere, distinti da una divisa, può essere traumatizzante.
La consapevolezza di stare attraversando un periodo di vita buio, non scoraggia pre Antoni che con tenacia e fede prega e chiede un po’ di luce al Signore. E’ una riflessione triste, come è triste l’esperienza di solitudine in cui relega la malattia.
E’ un libro di speranza anche se non nasconde l’improvvisa sofferenza di una malattia che arriva senza alcun preavviso.
Ti vuole convincere che “la flamute” se la cerchi la trovi e così illuminerà la strada della vita.
E’ un libro che ti sprona ad essere coraggioso e ti invita a “puartà la cros e no a strisinale parcé che ti seares lis spalis”.
E’ un libro pieno di fede in Dio, ma anche nell’uomo: “o ai dibisugne di crodi tal Signor, ma ancje in mè” (104).
Si trovano ancora nel libro “De Profundis” una lunga meditazione sulla settimana santa (Pre Antoni è stato ricoverato per la dialisi durante la settimana di Pasqua 2003) e tante domande esistenziali di un uomo che teme di essere abbandonato nel buio.
Quando accetta il trattamento della dialisi recupera la sua ironia e riprende le sue amorevoli critiche nei confronti della struttura “gleseatiche” che spesso ignora la sua malattia, sebbene qualche emissario lo vada a trovare proponendogli ragionamenti e filosofie irritanti.
E’ un vademecum che aiuta a vivere sia quanti hanno già esperienza della malattia che quanti vanno, fischiettando, verso la loro fine.
Questa intensa riflessione pre Antoni la conclude con una aspirazione che attraversa tutto il libro: “che la muart nus cjati vîfs”.
Marino Plazzotta
Agosto 2004
Media vita in morte sumus
Note sul libro “De profundis” di Pre Antoni Beline)
Tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo sentito sentenziare: “vita brevis est”. Forse era un prete, forse un filosofo, forse un anziano o un genitore.Per certo sappiamo che ciò non ebbe mai alcuna influenza sulle nostre abitudini quotidiane. Nemmeno la diffusa certezza che “media vita in morte sumus”, cioè che proprio mentre viviamo ci avviciniamo al nostro destino, credo, abbia mai indotto qualcuno a cambiare la propria vita. L’ineluttabilità della nostra sorte ci lascia, per fortuna, indifferenti.
Per alcuni, poi, il vivere assume straordinarie caratteristiche di serenità, tranquillità, frequenti momenti di soddisfazione. Costoro attraversano il tempo che gli è concesso quasi fosse una passeggiata, quasi fischiando, anzi fischiano proprio. Sono dei privilegiati soprattutto perché condividono un minimo comune divisore che è importante e fondamentale: la salute. “Mai vût nuie” ripetono come fosse tutto loro merito!
Gli altri, cioè quanti passano la vita piangendo, o come si dice dalle nostre parti “càinant”, neppure osano chiedersi perché gli è “toccata” questa vita e non un’altra.
Il libro di Pre Antoni “De Profundis” (in lingua friulana) è una precisa descrizione di quello che può accadere a quanti, improvvisamente, sono colti da qualche cosa che li sorprende, li stupisce ed avvilisce. Non si parla di morte improvvisa. La morte come si sa “quando c’è noi non ci siamo”. Si racconta della malattia che ti fa prima uno sgambetto, poi ti aggredisce con progressione inesorabile, incatenandoti, diventa cronica. Più grave è, più grande è la sorpresa di chi la subisce.
Pre Antoni elenca con una precisione professionale, ma anche con umanità, tutti i passaggi che uno deve superare per arrivare ad accettare la dialisi. La dialisi è un trattamento ospedaliero, cui ci si sottopone ogni due o tre giorni, che rigenera il sangue e non può essere abbandonata pena la morte in breve tempo. Quando questo trattamento fu prospettato a pre Antoni, nonostante la delicatezza ed il tatto dei medici, provocò in lui una reazione naturale ed esistenziale, quasi irrevocabile: “Ch’al lassi che la nature a fasi la so strade” disse al dottore che gli spiegava la ‘catena’ della dialisi, “non umiliante, ma condizionante”. “Parcé a mi Signôr?” Questa domanda che può capitare a ciascuno di noi di dover porsi nel corso della vita, soprattutto quando questa è limitata, asservita, condizionata dalla malattia, può lasciarci senza risposta. “Parcè a mi Signôr?” Se non si riesce a rispondere in brevissimo tempo può indurre a farci molto male.
“Il dolore è quanto di più personale, intrasferibile possa darsi nella vita degli uomini” scrive Salvatore Natoli ed aggiunge che “il dolore per quanto preparati si sia inchioda,comprime ed obbliga”. Bisogna sopportarlo, combatterlo, sperando di vincerlo.
“Il dolor po pocâti a preâ o a bestemâ, ad acetâ o a rifiutâ” scrive Pre Antoni e non nasconde l’ angoscia che si distende sul futuro, né la consapevolezza di avvicinarsi ad un evento finale che tale situazione accelera.
Ricorda le malattie che lo hanno accompagnato da sempre: broncopolmoniti, occlusioni di arterie, infarto intestinale, “la curtissade che mi ha forât i bugjei”, fino alla fase finale: la dialisi.
Con paziente ironia e serenità pre Antoni legge la sua vita, racconta i suoi drammi e propone una via di uscita: accettare.
Non esistono parole che possano convincerti ad essere morituro ed accettare un destino scritto dalla natura. Resta repellente ed illogico, incombente come una frana.
Quest’uomo ci aiuta non ad autoconsolarci, ma ad accettare il nostro destino. Ci insegna ad avvicinarci al fine della nostra vita senza entusiasmo, ma anche senza disperazione. E’ commovente accompagnarlo in quel difficile momento in cui il medico gli conferma che ormai a quel punto, la scelta “l’à fate il mâl” che potrà essere controllato, ma non eliminato o fermato.
Il cambiamento di abitudini, di orari, di vestiti, di alimentazione è registrato con bonaria ironia “cul orari, just, dal ospedâl, a vot di sere si è za stufs di ve zenât” (106) oppure “un come me, ch’al è vivut par une vite dibessól e che s’al sint ancje dome a crizâ une brê nol siere voli, al è evident che al varà di fa vitis di cjan par usasi a durmì cun atre int tune struture simpri in funzion (57).
La “disinvestitura” che l’ospedale mette in atto con tutti i ricoverati è accomunante: siamo tutti uguali. Forse per un prete rinunciare ai suoi segni distintivi, alla sua divisa, al suo potere potrebbe essere problematico. Essere come gli altri dopo aver occupato posizioni di potere, distinti da una divisa, può essere traumatizzante.
La consapevolezza di stare attraversando un periodo di vita buio, non scoraggia pre Antoni che con tenacia e fede prega e chiede un po’ di luce al Signore. E’ una riflessione triste, come è triste l’esperienza di solitudine in cui relega la malattia.
E’ un libro di speranza anche se non nasconde l’improvvisa sofferenza di una malattia che arriva senza alcun preavviso.
Ti vuole convincere che “la flamute” se la cerchi la trovi e così illuminerà la strada della vita.
E’ un libro che ti sprona ad essere coraggioso e ti invita a “puartà la cros e no a strisinale parcé che ti seares lis spalis”.
E’ un libro pieno di fede in Dio, ma anche nell’uomo: “o ai dibisugne di crodi tal Signor, ma ancje in mè” (104).
Si trovano ancora nel libro “De Profundis” una lunga meditazione sulla settimana santa (Pre Antoni è stato ricoverato per la dialisi durante la settimana di Pasqua 2003) e tante domande esistenziali di un uomo che teme di essere abbandonato nel buio.
Quando accetta il trattamento della dialisi recupera la sua ironia e riprende le sue amorevoli critiche nei confronti della struttura “gleseatiche” che spesso ignora la sua malattia, sebbene qualche emissario lo vada a trovare proponendogli ragionamenti e filosofie irritanti.
E’ un vademecum che aiuta a vivere sia quanti hanno già esperienza della malattia che quanti vanno, fischiettando, verso la loro fine.
Questa intensa riflessione pre Antoni la conclude con una aspirazione che attraversa tutto il libro: “che la muart nus cjati vîfs”.
Marino Plazzotta
Agosto 2004
...ET INCARNATUS EST
L’ultimo libro di Pre Antoni Beline “...et incarnatus est” (pare ancora in circolazione) non si può considerare propriamente un trattato di teologia, come il titolo potrebbe suggerire, ma una raccolta di brevi riflessioni sulla fede e i suoi principi fondamentali, sulla prassi ecclesiale, sulla gerarchia e sullo stato del clero, compresi i suoi atti eroici, ma anche i tradimenti che riempiono la bocca dei pettegoli di ogni ordine e grado. E’ un libro critico, ma non spietato. Scritto senza acredine e senza risentimenti. Dipende da chi lo legge dargli una interpretazione costruttiva e positiva.
Con la sobrietà e semplicità che contraddistinguono lo stile di pre Antoni Beline, che esprime concetti anche difficili in un friulano comune, senza ricercatezze formali, vengono spiegati i due misteri principali della fede, indicati nel catechismo di Pio X°:
1°-Unità e Trinità di Dio;
2°-Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo.
Questa spiegazione, o per dirla in termini tecnici “catechesi”, viene fatta in un modo inconsueto. Non parte dall’alto della cultura teologica, da libri profondi ed impegnativi che quasi riescono a spiegare i misteri, nè dai 2865 articoli del catechismo della chiesa cattolica secondo Giovanni Paolo II°, ma parte dal basso, dalla vita di ogni giorno, dal quotidiano, dalle domande semplici che ognuno può porsi indipendentemente dalla cultura o dall’istruzione.
Si chiede pre’ Antoni: che significato, che senso possono avere i principali misteri della fede, la dottrina della chiesa che li interpreta, li spiega, li impone? Che senso hanno le encicliche che li rispiegano, reinterpretano, allargando il loro orizzonte di interessi, onnicomprendendo tutto lo scibile fino ad includere argomenti che nulla hanno a che vedere con l’insegnamento evangelico (dalla fecondazione eterologa allo smaltimento dei rifiuti di Napoli)?
Nella chiesa poi si predica la democrazia e si pratica la dittatura fondata su carte e su stravaganti “befei”. La sua conclusione, dura da digerire è:”...la glesie e jè sante in te so dutrine e in tai siei sacraments, ma une barache e un disasro tai siei rapresentants, a ducj i nivei”
Pre Antoni ci fa scoprire che c’è un modo più semplice e più schietto di vivere la propria fede senza perdere tempo “a spiegâ ce che no sai e nissun sa”. E’ importante capire quali sono le fondamenta, i muri portanti, le tendine di una casa, cioè della fede, cioè dei misteri di Dio.
In questo libro Pre Antoni sintetizza la sua vita di fede, le sue delusioni, le sue scoperte.
Non è la prima volta che ci esprime le sue perplessità, ma è la prima volta che ce le presenta con un ragionamento completo e meditato, didattico. Di fronte alle contraddizioni di una chiesa che spesso tradisce gli insegnamenti del suo fondatore, non si limita nelle critiche, infierisce contro chi ha voluto dei seminari “deformanti”, contro chi ha imposto obbedienze assurde, spesso contro natura, smaschera chi vuole che i fedeli entrino in chiesa senza cappello e… senza testa. Già in altri scritti pre Antoni ha espresso il suo punto di vista critico sulla chiesa, il suo giudizio negativo sulla preparazione del prete, sulla invadente e sempre incombente burocrazia clericale, ma mai in forma circostanziata e precisa come in questo suo ultimo libro. I seminari sono stati inventati dal concilio di Trento (1560) e da allora non solo migliorati, ma nemmeno cambiati: continuano a sfornare prototipi, pochissimi, comunque inadatti alle attuali intemperie.
Pre Antoni è stato considerato molto scomodo dagli apparati burocratici che, per quanto incartapecoriti e anacronistici, ancora soprassiedono a questa chiesa friulana ridotta ai minimi termini, e si sono dimenticati molto presto dell’opera immensa che ha impegnato questo prete nella traduzione della Bibbia in lingua friulana (opera che meriterebbe come minimo riconoscimento una laurea Honoris Causa).
Ora con queste riflessioni teologiche che si sviluppano secondo una linea di sincero amore, per quanto difficile e provato, tutti dovranno interrogarsi, prima di dire alcunchè, su un uomo che, “spesso messo in disparte, sospettato, castigato, certo non valorizzato”, ancora resiste, tiene duro, crede.
C’è una domanda assillante che mi ha accompagnato durante tutta la lettura: si può ancora credere in un Dio onnipotente creatore del cielo e della terra che comunica con te attraverso una chiesa così compromessa e mescolata con la terra e i suoi modesti obiettivi?
Si può leggere questa specie di “summa teologica” di pre Beline in due modi. La si può leggere con la voglia di trovare qualche argomento che aiuti a dissacrare, deformare, indebolire quanti godono del “privilegio di stato”, cioè quanti ricoprono certe cariche e possono permettersi di dire le cose che la carica gli consente; oppure affrontarla con umiltà, senza certezze precostituite, senza aiuto, perfino senza il desiderio di infierire sulle note debolezze della chiesa ed i suoi rappresentanti.
La chiesa è altrove.
La chiesa pensa a chiedere perdono a tutti: per le vittime dei crociati, per quanti hanno condannato Galileo, per le vittime dell’olocausto. Mai ha pensato di chiedere perdono a quelle vittime che lei, Chiesa, ha fatto e sta facendo ancora OGGI: a quei suoi teologi che hanno espresso parerei diversi su argomenti discutibili e per nulla rivelati, a quei preti che non hanno sopportato un celibato imposto “ope legis” e non dedotto da alcuna indicazione evangelica, a quanti hanno creduto di rifarsi una vita senza pensare di vedersi negare la comunione.
Ma la Chiesa udinese chiederà mai perdono a pre Antoni Beline per i dubbi che i suoi scritti hanno, con costanza indefessa, inutilmente sollevato? Per le continue sollecitazioni ad un esame di coscienza espresse sempre con amore filiale? Per questo suo profondo e forse mal riposto amore per essa? Perché, dice pre Toni: “ad une mari si vul ben acje se jè brute”.
E’ un prete filosofo che con pacatezza ironizza sulla sua madre Chiesa.
Per lei è riuscito a sopprimere tutti gli istinti, come da richiesta, ed è perfino arrivato a sottrarsi a quella forza centrifuga che da anni coinvolge molti uomini dedicati alla causa. Fedele ad una scelta giovanile, ha fatto di tutto per non “dineâ” il suo impegno iniziale. Il suo diventar prete è stata una scelta esistenziale mai messa in discussione. Sa di non far parte dei privilegiati dell’arca di Noè. Si chiede perchè le chiese si svuotano: “vino o no vino une buine gnove?” ed allora perchè i giovani non vengono ad ascoltarci?
Può un prete consolarsi con le tre o quattro messe domenicali che rincorre ogni domenica?
Che cosa potrà mai dire ai pochi fedeli che non lo lasciano (ancora) solo?
Quale buona novella può essere trasmessa da un uomo che forse continua a svolgere un ruolo che non gli lascia alternative? Sono stati fregati da una vita imposta e strutturata come se la donna non esistesse.
Li hanno imbragati nel celibato che gli ha impedito di “umanarsi” in questo mondo. Lo hanno subito in buona fede, il celibato, memori delle cose tremende scritte da sant’Agostino sulle donne, poi lo hanno sublimato e deviato: ora sono soli, in grandiose canoniche fredde e vuote a cercare di inventare prediche tristissime e tragiche rasentando se non la pazzia la disperazione.
Molte cose nella chiesa non funzionano. Anzi si potrebbe quasi pensare che questa sia in “disarmo”. Non si sentono più messaggi profetici. Ci sono domande che incalzano, riflessioni che si susseguono, ma chi le pone resta spesso senza alcuna risposta.
In questa sorta di stasi apatica della chiesa, dove tuttavia ci sono ancora persone di buona volontà, sinceramente motivate, che provano a credere, c’è ancora qualcuno che viene ordinato prete. Proprio ad uno di questi pochi, pre Antoni indirizza le sue riflessioni che, ci auguriamo, gli servano a qualche cosa se non altro ad essere realista nell’affrontare la sua missione sacerdotale.
Pre Antoni Beline, dopo aver lanciato le sue pietre, alla fine si sente ancora coinvolto in questa sua madre Chiesa. Riesce ad esprimere un amore incomprensibile per noi uomini che viviamo di valori effimeri, nè siamo toccati da voti impegnativi come la Povertà, l’Obbedienza e la Castità.
Sono comunque arrivato alla conclusione che dopo aver letto questo libro, senza nullaosta e senza imprimatur, nessuno potrà mettere in dubbio l’ amore di pre Bellina per questa sua chiesa madre e matrigna, per questa donna casta et meretrix (per dirla con s. Agostino).
Marino Plazzotta
gosper1@tin.it
Gennaio 2006
L’ultimo libro di Pre Antoni Beline “...et incarnatus est” (pare ancora in circolazione) non si può considerare propriamente un trattato di teologia, come il titolo potrebbe suggerire, ma una raccolta di brevi riflessioni sulla fede e i suoi principi fondamentali, sulla prassi ecclesiale, sulla gerarchia e sullo stato del clero, compresi i suoi atti eroici, ma anche i tradimenti che riempiono la bocca dei pettegoli di ogni ordine e grado. E’ un libro critico, ma non spietato. Scritto senza acredine e senza risentimenti. Dipende da chi lo legge dargli una interpretazione costruttiva e positiva.
Con la sobrietà e semplicità che contraddistinguono lo stile di pre Antoni Beline, che esprime concetti anche difficili in un friulano comune, senza ricercatezze formali, vengono spiegati i due misteri principali della fede, indicati nel catechismo di Pio X°:
1°-Unità e Trinità di Dio;
2°-Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione di nostro Signore Gesù Cristo.
Questa spiegazione, o per dirla in termini tecnici “catechesi”, viene fatta in un modo inconsueto. Non parte dall’alto della cultura teologica, da libri profondi ed impegnativi che quasi riescono a spiegare i misteri, nè dai 2865 articoli del catechismo della chiesa cattolica secondo Giovanni Paolo II°, ma parte dal basso, dalla vita di ogni giorno, dal quotidiano, dalle domande semplici che ognuno può porsi indipendentemente dalla cultura o dall’istruzione.
Si chiede pre’ Antoni: che significato, che senso possono avere i principali misteri della fede, la dottrina della chiesa che li interpreta, li spiega, li impone? Che senso hanno le encicliche che li rispiegano, reinterpretano, allargando il loro orizzonte di interessi, onnicomprendendo tutto lo scibile fino ad includere argomenti che nulla hanno a che vedere con l’insegnamento evangelico (dalla fecondazione eterologa allo smaltimento dei rifiuti di Napoli)?
Nella chiesa poi si predica la democrazia e si pratica la dittatura fondata su carte e su stravaganti “befei”. La sua conclusione, dura da digerire è:”...la glesie e jè sante in te so dutrine e in tai siei sacraments, ma une barache e un disasro tai siei rapresentants, a ducj i nivei”
Pre Antoni ci fa scoprire che c’è un modo più semplice e più schietto di vivere la propria fede senza perdere tempo “a spiegâ ce che no sai e nissun sa”. E’ importante capire quali sono le fondamenta, i muri portanti, le tendine di una casa, cioè della fede, cioè dei misteri di Dio.
In questo libro Pre Antoni sintetizza la sua vita di fede, le sue delusioni, le sue scoperte.
Non è la prima volta che ci esprime le sue perplessità, ma è la prima volta che ce le presenta con un ragionamento completo e meditato, didattico. Di fronte alle contraddizioni di una chiesa che spesso tradisce gli insegnamenti del suo fondatore, non si limita nelle critiche, infierisce contro chi ha voluto dei seminari “deformanti”, contro chi ha imposto obbedienze assurde, spesso contro natura, smaschera chi vuole che i fedeli entrino in chiesa senza cappello e… senza testa. Già in altri scritti pre Antoni ha espresso il suo punto di vista critico sulla chiesa, il suo giudizio negativo sulla preparazione del prete, sulla invadente e sempre incombente burocrazia clericale, ma mai in forma circostanziata e precisa come in questo suo ultimo libro. I seminari sono stati inventati dal concilio di Trento (1560) e da allora non solo migliorati, ma nemmeno cambiati: continuano a sfornare prototipi, pochissimi, comunque inadatti alle attuali intemperie.
Pre Antoni è stato considerato molto scomodo dagli apparati burocratici che, per quanto incartapecoriti e anacronistici, ancora soprassiedono a questa chiesa friulana ridotta ai minimi termini, e si sono dimenticati molto presto dell’opera immensa che ha impegnato questo prete nella traduzione della Bibbia in lingua friulana (opera che meriterebbe come minimo riconoscimento una laurea Honoris Causa).
Ora con queste riflessioni teologiche che si sviluppano secondo una linea di sincero amore, per quanto difficile e provato, tutti dovranno interrogarsi, prima di dire alcunchè, su un uomo che, “spesso messo in disparte, sospettato, castigato, certo non valorizzato”, ancora resiste, tiene duro, crede.
C’è una domanda assillante che mi ha accompagnato durante tutta la lettura: si può ancora credere in un Dio onnipotente creatore del cielo e della terra che comunica con te attraverso una chiesa così compromessa e mescolata con la terra e i suoi modesti obiettivi?
Si può leggere questa specie di “summa teologica” di pre Beline in due modi. La si può leggere con la voglia di trovare qualche argomento che aiuti a dissacrare, deformare, indebolire quanti godono del “privilegio di stato”, cioè quanti ricoprono certe cariche e possono permettersi di dire le cose che la carica gli consente; oppure affrontarla con umiltà, senza certezze precostituite, senza aiuto, perfino senza il desiderio di infierire sulle note debolezze della chiesa ed i suoi rappresentanti.
La chiesa è altrove.
La chiesa pensa a chiedere perdono a tutti: per le vittime dei crociati, per quanti hanno condannato Galileo, per le vittime dell’olocausto. Mai ha pensato di chiedere perdono a quelle vittime che lei, Chiesa, ha fatto e sta facendo ancora OGGI: a quei suoi teologi che hanno espresso parerei diversi su argomenti discutibili e per nulla rivelati, a quei preti che non hanno sopportato un celibato imposto “ope legis” e non dedotto da alcuna indicazione evangelica, a quanti hanno creduto di rifarsi una vita senza pensare di vedersi negare la comunione.
Ma la Chiesa udinese chiederà mai perdono a pre Antoni Beline per i dubbi che i suoi scritti hanno, con costanza indefessa, inutilmente sollevato? Per le continue sollecitazioni ad un esame di coscienza espresse sempre con amore filiale? Per questo suo profondo e forse mal riposto amore per essa? Perché, dice pre Toni: “ad une mari si vul ben acje se jè brute”.
E’ un prete filosofo che con pacatezza ironizza sulla sua madre Chiesa.
Per lei è riuscito a sopprimere tutti gli istinti, come da richiesta, ed è perfino arrivato a sottrarsi a quella forza centrifuga che da anni coinvolge molti uomini dedicati alla causa. Fedele ad una scelta giovanile, ha fatto di tutto per non “dineâ” il suo impegno iniziale. Il suo diventar prete è stata una scelta esistenziale mai messa in discussione. Sa di non far parte dei privilegiati dell’arca di Noè. Si chiede perchè le chiese si svuotano: “vino o no vino une buine gnove?” ed allora perchè i giovani non vengono ad ascoltarci?
Può un prete consolarsi con le tre o quattro messe domenicali che rincorre ogni domenica?
Che cosa potrà mai dire ai pochi fedeli che non lo lasciano (ancora) solo?
Quale buona novella può essere trasmessa da un uomo che forse continua a svolgere un ruolo che non gli lascia alternative? Sono stati fregati da una vita imposta e strutturata come se la donna non esistesse.
Li hanno imbragati nel celibato che gli ha impedito di “umanarsi” in questo mondo. Lo hanno subito in buona fede, il celibato, memori delle cose tremende scritte da sant’Agostino sulle donne, poi lo hanno sublimato e deviato: ora sono soli, in grandiose canoniche fredde e vuote a cercare di inventare prediche tristissime e tragiche rasentando se non la pazzia la disperazione.
Molte cose nella chiesa non funzionano. Anzi si potrebbe quasi pensare che questa sia in “disarmo”. Non si sentono più messaggi profetici. Ci sono domande che incalzano, riflessioni che si susseguono, ma chi le pone resta spesso senza alcuna risposta.
In questa sorta di stasi apatica della chiesa, dove tuttavia ci sono ancora persone di buona volontà, sinceramente motivate, che provano a credere, c’è ancora qualcuno che viene ordinato prete. Proprio ad uno di questi pochi, pre Antoni indirizza le sue riflessioni che, ci auguriamo, gli servano a qualche cosa se non altro ad essere realista nell’affrontare la sua missione sacerdotale.
Pre Antoni Beline, dopo aver lanciato le sue pietre, alla fine si sente ancora coinvolto in questa sua madre Chiesa. Riesce ad esprimere un amore incomprensibile per noi uomini che viviamo di valori effimeri, nè siamo toccati da voti impegnativi come la Povertà, l’Obbedienza e la Castità.
Sono comunque arrivato alla conclusione che dopo aver letto questo libro, senza nullaosta e senza imprimatur, nessuno potrà mettere in dubbio l’ amore di pre Bellina per questa sua chiesa madre e matrigna, per questa donna casta et meretrix (per dirla con s. Agostino).
Marino Plazzotta
gosper1@tin.it
Gennaio 2006
UN CÎL CENCE STELIS
E’ uno dei tascabili più pregnanti di pre Toni Beline, ma con una notevole quantità di riflessioni contro la guerra, distribuite dal 2001 al 2004 su ‘Vita Cattolica’, ‘Patrie dal Friûl' o ancora inediti.
Ci sono alcune “olmis-impronte” censurate, in toto o in parte, dalla direzione del settimanale diocesano, ma l’insieme non è polemico, se non nei confronti della gerarchia ecclesiastica che nell’arco degli anni ha assunto atteggiamenti contradditori nei confronti degli eventi bellici in Afganistan ed in Irak, dimenticandosi che “il riuç di Fedro al è insanganât".
La mancanza di punti di riferimento, di luce, di indicazioni precise è sottolineato da Pre Toni Beline che vede la gente come dei viaggiatori su un pullman dove l’autista è impazzito e non sa dove andare, né da dove è partito.
Questa paura del buio è quasi una costante di Pre Toni, tant’è che in una preghiera nel “De Profundis” chiede di imparare a camminare al buio: “No sai ce che l’avignî mi distinarà. O stoi spietant simpri il meracul di imparâ a cjaminâ tal scûr (De Profundis p.113).
In realtà Pre Toni ha le sue idee chiare ed ha affrontato con obiettività il problema della guerra. Non concepisce una "guerra giusta", sostenuta dalle gerarchie che sottilizzano fra pacifisti e pacificatori. Anche se lui non ha mai partecipato ad alcuna manifestazione e non ha esposto alcuna bandiera arcobaleno, ha sempre predicato la pace e suggerito metodi pacifici di convivenza.
Si è schierato con il vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro (friulano di Sedegliano) che in occasione della strage di Nassiria e delle commemorazione di quei morti, si era permesso di dire che non era giusto strumentalizzare le vittime di una guerra come giustificazione delle guerre stesse.
Sottolinea pre Toni che quasi tutti i vescovi hanno tolto il saluto a mons. Nogaro che aveva cercato di interpretare correttamente la beatitudine: “Fortunâz chei ca lavorin pe pâs”.
Con l’occasione si è tolto anche qualche sassolino riguardo all’atteggiamento farneticante dell'allora vescovo di Udine, Anastasio Rossi, che, in occasione dell’invasione dell’Etiopia da parte dell'Italia fascista, proclamava: “…una visione di storia ci sta dinanzi allo sguardo illuminato della cristiana speranza. Ecco le schiere dei nostri eroi. E’ suonata l’ora del trionfo immortale”.
Così stigmatizza il più recente arcivescovo udinese Giuseppe Nogara che, dopo aver allora pregato per il popolo abissino, massacrato dal gas nervino e dalle bombe italiane, auspicava che questi tornasse all’unità cattolica ed invitava i fedeli a partecipare ad una messa per "ottenere l’aiuto di Dio sulla nostra Patria e particolarmente sul nostro esercito“.
Il libretto evidenzia la grande amarezza di Pre Toni per il modo in cui la gerarchia si è comportata nei confronti della guerra: “Ce sens àjal fâ batais acanidis e teorichis su la gjenetiche, su la clonazion, sui preservatîfs, su l’omosessualitât, se si siere un voli su la vuere, il marcjât des armis, l’incuinament, la produzion disordenade e incontrolade? Si puedial difindi la vite te panze de mari e lasâle cence difesis cuant che e à vude la disgrazie di saltâ fûr?”
Critica pure i cristiani che, non privandosi di alcunché, si rasserenano la coscienza lasciando qualche briciola a chi non ha di che nutrirsi o vestirsi.
Quanto maggiore sarebbe poi stata l’amarezza di Pre Toni se avesse solo immaginato che a sostituirlo nella sua parrocchia sarebbe stato nominato un cappellano militare in servizio?
La gerarchia, si deve convenire, con il rispetto dovuto alla persona designata, non ha proprio avuto buon gusto, né “grazia di stato”. Non sarebbe stato meglio se lo avessero mandato in prima linea in Carnia, magari in una zona di confine, questo prete militare?
Marino Plazzotta
(20.01.08)
E’ uno dei tascabili più pregnanti di pre Toni Beline, ma con una notevole quantità di riflessioni contro la guerra, distribuite dal 2001 al 2004 su ‘Vita Cattolica’, ‘Patrie dal Friûl' o ancora inediti.
Ci sono alcune “olmis-impronte” censurate, in toto o in parte, dalla direzione del settimanale diocesano, ma l’insieme non è polemico, se non nei confronti della gerarchia ecclesiastica che nell’arco degli anni ha assunto atteggiamenti contradditori nei confronti degli eventi bellici in Afganistan ed in Irak, dimenticandosi che “il riuç di Fedro al è insanganât".
La mancanza di punti di riferimento, di luce, di indicazioni precise è sottolineato da Pre Toni Beline che vede la gente come dei viaggiatori su un pullman dove l’autista è impazzito e non sa dove andare, né da dove è partito.
Questa paura del buio è quasi una costante di Pre Toni, tant’è che in una preghiera nel “De Profundis” chiede di imparare a camminare al buio: “No sai ce che l’avignî mi distinarà. O stoi spietant simpri il meracul di imparâ a cjaminâ tal scûr (De Profundis p.113).
In realtà Pre Toni ha le sue idee chiare ed ha affrontato con obiettività il problema della guerra. Non concepisce una "guerra giusta", sostenuta dalle gerarchie che sottilizzano fra pacifisti e pacificatori. Anche se lui non ha mai partecipato ad alcuna manifestazione e non ha esposto alcuna bandiera arcobaleno, ha sempre predicato la pace e suggerito metodi pacifici di convivenza.
Si è schierato con il vescovo di Caserta, Raffaele Nogaro (friulano di Sedegliano) che in occasione della strage di Nassiria e delle commemorazione di quei morti, si era permesso di dire che non era giusto strumentalizzare le vittime di una guerra come giustificazione delle guerre stesse.
Sottolinea pre Toni che quasi tutti i vescovi hanno tolto il saluto a mons. Nogaro che aveva cercato di interpretare correttamente la beatitudine: “Fortunâz chei ca lavorin pe pâs”.
Con l’occasione si è tolto anche qualche sassolino riguardo all’atteggiamento farneticante dell'allora vescovo di Udine, Anastasio Rossi, che, in occasione dell’invasione dell’Etiopia da parte dell'Italia fascista, proclamava: “…una visione di storia ci sta dinanzi allo sguardo illuminato della cristiana speranza. Ecco le schiere dei nostri eroi. E’ suonata l’ora del trionfo immortale”.
Così stigmatizza il più recente arcivescovo udinese Giuseppe Nogara che, dopo aver allora pregato per il popolo abissino, massacrato dal gas nervino e dalle bombe italiane, auspicava che questi tornasse all’unità cattolica ed invitava i fedeli a partecipare ad una messa per "ottenere l’aiuto di Dio sulla nostra Patria e particolarmente sul nostro esercito“.
Il libretto evidenzia la grande amarezza di Pre Toni per il modo in cui la gerarchia si è comportata nei confronti della guerra: “Ce sens àjal fâ batais acanidis e teorichis su la gjenetiche, su la clonazion, sui preservatîfs, su l’omosessualitât, se si siere un voli su la vuere, il marcjât des armis, l’incuinament, la produzion disordenade e incontrolade? Si puedial difindi la vite te panze de mari e lasâle cence difesis cuant che e à vude la disgrazie di saltâ fûr?”
Critica pure i cristiani che, non privandosi di alcunché, si rasserenano la coscienza lasciando qualche briciola a chi non ha di che nutrirsi o vestirsi.
Quanto maggiore sarebbe poi stata l’amarezza di Pre Toni se avesse solo immaginato che a sostituirlo nella sua parrocchia sarebbe stato nominato un cappellano militare in servizio?
La gerarchia, si deve convenire, con il rispetto dovuto alla persona designata, non ha proprio avuto buon gusto, né “grazia di stato”. Non sarebbe stato meglio se lo avessero mandato in prima linea in Carnia, magari in una zona di confine, questo prete militare?
Marino Plazzotta
(20.01.08)
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